Il referendum costituzionale, riguardante le modifiche proposte con il ddl Boschi, è entrato nel vivo del dibattito politico.
Il Sì cerca di convincere l’elettorato con tre argomentazioni:
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Con la fine del bicameralismo paritario (cioè di un Parlamento composto di camere con la stessa funzione), il Senato rappresenterebbe prevalentemente le istanze territoriali, lasciando l’approvazione delle leggi alla Camera dei deputati. Ciò, sostiene il Sì, garantirebbe dei tempi di approvazione più rapidi.
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Il taglio del numero dei parlamentari e dei relativi costi, che gravano sulla collettività.
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La riduzione del potere delle Regioni, simbolo della lentezza burocratica e delle tipiche clientele all’italiana.
Il fronte del No risponde ai comitati del Sì sostenendo che è vero che il “nuovo” Senato verrà privato del voto di fiducia sul Governo e ridotto a 100 senatori, scelti tra i consiglieri regionali e i sindaci, ma che una simile configurazione porta dei problemi: la composizione di Palazzo Madama dovrà rinnovarsi continuamente e sarà pertanto caratterizzata da una costante instabilità legislativa, poiché ogni senatore rimarrà in carica soltanto per la durata della propria legislatura da consigliere regionale o da primo cittadino. Inoltre, molti dei senatori saranno espressione del partito più presente nelle Regioni, ragione per cui, in caso di vittoria alla Camera di un’altra forza politica, si profilerà una situazione di continuo conflitto tra le due aule.
Ad esemplificare il rischio della confusione legislativa alla quale si va incontro è la stessa modifica dell’articolo 70.
In numerose materie, anche molto delicate, rimane la legislazione di entrambe le Camere – in parole povere, come nel bicameralismo paritario. Ad esempio: le leggi costituzionali, di revisione costituzionale e quella elettorale; i referendum popolari; l’ordinamento, gli organi di governo, i trattati europei. Nelle altre materie il Senato avrà il potere di proporre modifiche per una seconda lettura alla Camera, la quale in molti casi, per respingerle, dovrà raggiungere la maggioranza assoluta dei suoi componenti. La maggioranza assoluta dei componenti e non dei presenti, portando quindi a situazioni di stallo.
Ne derivano, dunque, una decina di diversi procedimenti di approvazione, che paradossalmente provocano quel “ping-pong“ tra i due rami del Parlamento contro il quale il Sì promuove la riforma.
Di conseguenza, il processo legislativo derivante dalla riforma costituzionale solleva dei conflitti di attribuzione sulla tipologia di ogni proposta di legge, rendendo incerti i relativi tempi di approvazione. I tempi in questione, divenendo ora rapidi ora elefantiaci, possono costituire la base per accordi di potere tra partiti, spesso totalmente lontani dai problemi del Paese reale e dalla loro rappresentanza.
Anche dal punto di vista dei risparmi la propaganda del Sì viene smentita.
Il questore di Palazzo Madama, Lucio Malan, rivela che si risparmiano 50 milioni di euro, il 20% dei costi attuali, per un’Aula che lavorerà meno dell’attuale. In più, con consiglieri regionali e sindaci che avranno il doppio incarico di senatori, l’aumento di consulenti e le trasferte per Roma richiederanno nuovi rimborsi.
Altri aspetti molto critici sulla ridefinizione del Senato riguardano la sua ineleggibilità diretta e l’immunità parlamentare dei senatori.
La riforma non rimanda più ai cittadini l’elezione dei loro rappresentanti, ma ai partiti.
Ciò è grave in un paese la cui cronaca politica è spesso segnata da indagini e arresti di consiglieri regionali e sindaci, soprattutto per associazione mafiosa: in quanto senatori potranno godere dell’immunità parlamentare. Inoltre, essendo questi anche esponenti di istituzioni territoriali, sono alte le probabilità che finiscano per lavorare poco sia nei rispettivi consigli regionali o comunali sia in Senato. Il problema che si verificherà è dunque un peggioramento nella qualità e nella quantità dell’esercizio di tutte le loro funzioni.
A questi dubbi si aggiungerà l’enorme lavoro che impegnerà la Corte Costituzionale nella risoluzione del contenzioso tra Stato e Regioni, private di autonomia e di potere legislativo.
L’ambiguità della riforma costituzionale sul Titolo V è dovuta al Governo, che conta di attuare le ripartizioni delle materie di competenza dopo il referendum, tramite legge ordinaria. Cioè senza aver dato possibilità agli elettori di decidere su questo il 4 dicembre.
Il caos sulle competenze viene esasperato dall’introduzione della Clausola di supremazia, con la quale lo Stato può intervenire in materie di sua non esclusiva competenza, in nome di un vago concetto di «tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica», e di «tutela dell’interesse nazionale». Con questa clausola c’è il rischio che il Governo possa abusare del proprio potere.
Contrariamente a quanto previsto nelle Costituzioni americana e tedesca, che regolano dettagliatamente le materie e i casi del ricorso alla supremazia statale, il nuovo testo non prevede nessun limite né bilanciamento al suo esercizio.
A differenza della “Chiamata di sussidiarietà” introdotta dalla legge costituzionale n. 3/2001, le Regioni e la Conferenza delle Regioni non dispongono di nessuna tutela in caso di eccessivo ricorso alla clausola. Il solo Senato potrà dichiarare pareri sull’intervento statale, ma i suoi membri non avranno il mandato imperativo, cioè vincolato alle Regioni di provenienza, rappresentando gli interessi nazionali.
Per i comitati del No la riforma costituzionale fa della Costituzione lo strumento delle politiche di austerità e della maggioranza politica di turno e non per la tutela dei diritti di tutti: il premierato forte che ne deriva incentiva l’approvazione dei diktat da Bruxelles. Inoltre, non prevede per i cittadini nessuna difesa dagli abusi di una classe politica senza credibilità.
Articolo a cura di Eduardo Danzet