Violenza sulle donne: in Umbria, a che punto siamo?
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Cosa significhi avere paura è impossibile da spiegare con le parole. Prima ancora del sangue e dei lividi sul viso. Prima dei vestiti strappati e degli schiaffi fragorosi, delle urla e delle offese gratuite. Prima di tutto, se si parla di violenza sulle donne, c’è la paura. Una forma subdola, che non si vede e non si sente. Ogni anno sono tante le donne che la provano, che faticano a raccontare e che entrano in un vortice da cui è difficile uscire. Al silenzio fanno eco gli interrogativi.
È colpa mia? Dove ho sbagliato?
Secondo i dati Istat dello scorso anno, in Italia, 6 milioni 788 mila donne hanno subito una forma di violenza nella propria vita. Se si fa un confronto tra le regioni, è l’Umbria – insieme a Calabria e Campania – ad avere il livello più alto di vittime in rapporto alla popolazione femminile. Lo conferma la Commissione parlamentare d’inchiesta del Senato.
E chissà di quante donne si ignora la condizione, chissà quante hanno paura.

Violenza sulle donne in Umbria – prima e dopo il Coronavirus

La regione Umbria ha predisposto un Osservatorio regionale sulla violenza degli uomini contro le donne.
Il sistema informativo attivo dal 2018 si chiama S.E.Re.N.A.: è uno strumento necessario allo studio del fenomeno, per l’identificazione delle linee da attuare e per il monitoraggio delle attività. S.E.Re.N.A., nel novembre dello sorso anno, ha registrato nel solo 2019 un numero di 670 segnalazioni dirette di violenza sulle donne. Di queste 30 in emergenza/urgenza, 236 al Cav (Centro Antiviolenza) di Perugia, 156 al Cav Terni, 128 al Cav Telefono Donna, 54 al Cav Spoleto, 33 al Cav Orvieto, 25 al Cav Narni, 8 al Cav Città della Pieve.

Sono trascorsi alcuni mesi dalla rilevazione, ma nel frattempo è arrivato il Coronavirus: è cambiata ogni cosa. Nei primi giorni di confinamento i telefoni non squillano quasi più. Molte donne si ritrovano, all’improvviso, in una convivenza forzata con chi esercita su di loro maltrattamenti. La paura è di subire violenze ma anche di alzare una cornetta. Nei primi quindici giorni di marzo, al Cav di Perugia, il telefono è squillato 7 volte: questo il dato riportato sul Corriere dell’Umbria.
Prima dell’emergenza potevano arrivare a dieci al giorno. Qualcosa si è poi mosso.

Secondo i dati ISTAT nel periodo che va dal 1 marzo al 16 aprile sono aumentate in Italia le telefonate al 1522, il numero di riferimento per la violenza di genere e lo stalking. I dati sono stati in aumento anche in Umbria. Qui le telefonate sono state 49, in aumento rispetto al 2019 quando erano state 31.  Ad aumentare anche il numero di vittime che hanno deciso di telefonare: da 12 si è passati a 25. Numeri relativamente bassi ma che hanno delineato una chiara linea in ascesa. Per l’istituto di statistica, le campagne di informazione hanno fortemente influito. Molte donne si sono rivolte a un Cav D.I.Re.: dal 2 marzo al 3 maggio, in Umbria, sono state registrate 21 richieste, di cui 17 erano donne già seguite.

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Garantire la sicurezza è stato il primo passo

«L’attuale, drammatico contesto, non cambia la necessità valida ogni singolo giorno di garantire la sicurezza delle donne e dei bambini dalla violenza: è quindi fondamentale anche in questo difficile momento che le donne sappiano che i servizi in grado di sostenerle nella loro lotta quotidiana contro la violenza sono presenti e operativi». È quanto riportato sul sito della regione Umbria a firma di Chiara Pucciarini, presidente del Centro pari opportunità della Regione Umbria, nei giorni del lockdown.

Perché il virus ha messo in difficoltà tante donne costrette a condividere il luogo più sicuro di tutti, la casa. Le operatrici dei centri antiviolenza e della Rete hanno continuato però ad operare nonostante le difficoltà. A confermarlo è Donatella Massarelli, responsabile del Servizio Affari generali della Presidenza e politiche di genere della regione Umbria. 

In un’intervista rilasciata a luglio, racconta quali misure sono state adottate per far fronte alle necessità delle donne a rischio violenza. «Anche se la situazione è stata difficile la regione si è impegnata con campagne di informazione e non solo. A marzo è stato inviato dalla regione un Vademecum sulle misure da prendere all’interno dei centri antiviolenza, iniziative precauzionali e messa in sicurezza dei Cav per garantire il servizio».

In Umbria ci sono due centri antiviolenza residenziali, a Terni e Perugia. Ci sono poi le case rifugio e le case di semiautonomia. Mentre quelli a sportello hanno chiuso e hanno offerto i servizi da remoto; i CAV residenziali e le case rifugio sono rimaste aperti.

Il contrasto alla violenza sulle donne tra programmazione e fondi

Per quanto riguarda la programmazione delle misure da adottare nel contrasto alla violenza sulle donne, la regione Umbria non riesce a elaborare una programmazione biennale. Questo è dovuto anche alle risorse dello Stato che ogni anno possono variare. E ai ritardi del Dpo che si riversano sulle regioni.

«Le risorse messe in campo quest’anno non sono poche», spiega ancora Donatella Massarelli.

Ai 200 mila euro del bilancio della regione vanno sommati i quasi 498mila euro stanziati dallo Stato come Dpcm del 2019 per l’anno 2020, di cui 334mila dell’art. 5 bis: si tratta di soldi che servono per finanziare direttamente i servizi – e quindi case violenza, ad esempio. Gli altri, più di 164 mila euro, fanno capo all’art. 5 del Dpcm: servono per attuare politiche, quali favorire l’autonomia abitativa delle donne o agevolare l’inserimento al lavoro.
Quest’anno con l’emergenza da COVID-19, lo Stato non ha fatto distinzione tra art. 5 e art. 5 bis., per cui è stato possibile dare tutti i soldi ai Cav. 

«Il programma regionale 2020 opera in un contesto inatteso e imprevedibile», si legge nel documento ufficiale. L’obiettivo per il 2020 è rafforzare il sistema regionale, attraverso accordi tra Regione e Comuni capofila delle zone in cui sono operative le reti antiviolenza. Nessun finanziamento è previsto per la costituzione di nuovi centri antiviolenza e case rifugio, si realizzeranno i servizi programmati nel 2019.
Per facilitare la comunicazione con i Cav sono stati pensati metodi veloci. Messaggeria di Facebook e Whatsapp
I Comuni e le associazioni mettono a disposizione piccole strutture ricettive, b&b, case vacanza, per le donne che hanno subito violenza e hanno bisogno di sicurezza per i 14 giorni di isolamento prima di andare nelle case rifugio o nei Cav residenziali.

Una parentesi che parentesi non è: l’aborto farmacologico

Il Coronavirus ha messo a nudo le fratture del sistema sanitario per quanto questo abbia dato prova delle proprie capacità. Mai come oggi, è certo che bisogna avere un sistema capace di garantire il diritto alla salute.
Proprio quest’ultimo argomento è stato motivo di dibattito in Umbria. 
È giugno. La regione è sotto i riflettori di giornalisti, politici e associazioni. Il motivo? Una delibera promossa della presidente leghista della Regione Umbria, Donatella Tesei, vieta di ricorrere alla pillola abortiva in day hospital. Si ripristina l’obbligo di ricovero di almeno tre giorni per le donne che vogliono interrompere la gravidanza. Un’inversione di tendenza rispetto alla precedente giunta. Le reazioni sono immediate, sia dentro che fuori la regione.

La presidente rivendica un adeguamento alla norma nazionale e considera la misura strumento a difesa della salute delle donne. A essere messa in pericolo secondo i giudizi critici è invece la libertà di scegliere e di dare a tutti la stessa opportunità. La difficoltà di abortire potrebbe aumentare gli aborti clandestini. Anche la libertà è contrasto alla violenza sulle donne. Del resto la presidente di regione in una lettera al Ministro della Salute, Roberto Speranza, ha già detto che è pronta a rivedere la delibera.

Ma quindi a che punto siamo?

Antonella Veltri, presidente di D.i.Re, al lancio del Position PaperIl cambiamento che vogliamo‘ – dello scorso 10 luglio – ha dichiarato: «25 anni fa, in occasione della Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne di Pechino, è stata lanciata al mondo la promessa di uguaglianza e di diritti, con una chiara indicazione di quali fossero i diritti delle donne da realizzare e da implementare. Oggi mi chiedo “In che Stato siamo?”, che è anche il titolo della campagna con cui ci rivolgiamo alle istituzioni per applicare le raccomandazioni del GREVIO e rendere effettiva la Convenzione di Istanbul in Italia».

La pandemia ha messo in luce le disuguaglianze sia sociali sia di genere. Ha danneggiato tutti ma ancora di più i deboli. In Umbria, in Italia e nel mondo.
Il post pandemia è un tempo di bilanci. E soprattutto di riflessioni. Emerge la necessità di linee politiche comuni e durevoli. Perché il contrasto alla violenza non conosce classi né età, generi o colori politici.
Tutto ciò che mette in difficoltà la determinazione delle donne, ciò che crea problemi ulteriori, dovrebbe probabilmente essere evitato.

Alba Dalù

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