Gli azzurri possono essere il centro di una nuova narrazione, l’incanto per raffreddare l’odio e per tornare a ragionare come comunità?
17 marzo 2020, viene ufficialmente rinviato l’Europeo per l’emergenza covid. Da lì lo sconforto, la paura, l’incredulità. Come poteva una manifestazione di quella portata (con tutto quel coacervo di interessi in ballo) essere rinviata di un anno?
Quella decisione, al tempo obbligata, aveva una potenza simbolica importantissima: rappresentava tutta l’impreparazione e lo spaesamento collettivo nei confronti della nuova realtà.
E ciò faceva paura. E quando c’è paura, le fratture sociali diventano ancora più voraginose e incolmabili. A divampare non sono più soltanto gli storici conflitti tra nord e sud o le ancestrali ostilità tra i ricchi e i poveri, ma anche i no mask contro gli ossequiosi delle regole, i nuovi ricchi contro i nuovi poveri.
Al di là dei fidenti e vuoti spot istituzionali l’Italia e gli italiani erano a pezzi. Non si vedeva il becco di un quattrino (né di ristori), le serrande dei negozi erano chiusi, le casse integrazioni fioccavano e la società perdeva ogni contatto con l’altro sprofondando pericolosamente verso la sua forma primitiva: quello di una giungla.
L’ottimo film Parasite di Bong Joon-ho preconizzava opportunamente: “sono gentili perché sono ricchi” riferendosi ai benestanti a coloro che hanno la fortuna di assaporare il benessere materiale in questa vita, un’agiatezza che da all’umanità l’illusione di essere qualcosa di più, di più evoluto, instillando la fiducia che si possa fare a meno dello scontro violento con l’altro. Invece, è proprio nei momenti di sconforto e di difficoltà materiale che si riscopre in maniera inequivocabile la bestialità, la necessità di sopraffazione e la consapevolezza che ogni armonia, ogni concinnità, è edificata sul sopruso e sull’iniquità su chi, più o meno coercitivamente, è posto in una condizione di dominato.
Svelata la grande menzogna – quella del vivere civile come punto d’arrivo, quella di un’evoluzione umana-sociale “naturale”, “razionale” – al popolo italiano sono rimaste due scelte: cedere ai propri impulsi animali, oppure farsi obnubilare da una nuova finzione, da una narrazione in grado di ripristinare un senso di solidarietà, anche se solo apparente ed effimera, per lenire la disillusione e la delusione dei nostri tempi.
Una narrazione, oggi c’è, ed è quella dell’Europeo e della nazionale italiana.
Cosa rappresentano gli azzurri per i tifosi?
“É il momento di aggregazione per eccellenza”
Lello, ultras del Milan e tifoso degli azzurri.
Abbiamo chiesto ad alcuni tifosi azzurri (tifosissimi di altre squadre durante l’anno) cosa provano nel guardare la nazionale azzurra durante un evento del genere.
Per molti tifosi la bandiera diventa un totem in cui identificarci come collettivo, un simbolo che unisce e che racconta tanti dolori ma tradisce anche speranze e storie passate. Racconta di angherie e divisioni ma anche di momenti di gioia, di unione universale e familiare che riaffermano carsicamente quel progetto forse utopistico di una società unita. Un unità che passa per la sfida, dalla sconfitta o dalla vittoria, in un’avventura nazionale, in fieri e mai compiuta davvero. Un tentativo di salvaguardia di una coesione altrimenti fragile.
Insomma, pare che solo sentendosi parte di un qualcosa più grande l’uomo abbandoni la sua animalità ricollocando nel gioco le divisioni, l’odio, la propria natura conflittuale. Facendosi per lo spazio di pochi giorni paese, collettivo, comunità, ingroup, nel nostro caso… italiani.
“Mi ricorda la gioia del 2006, la vittoria i festeggiamenti, la gloria”.
Per Francesco, tifosissimo del Napoli, viene meno tutto questo discorso e, invece, ne suggerisce un altro. La kermesse nazionale è associata al ricordo in particolare al festeggiamento, alla speranza di vittoria, alla vertigine collettiva, al tempo da intendere unitariamente in un’identificazione tra festeggiamento, unità sociale e unità temporale.
Nella fattispecie, per il popolo italiano, diventa anche un discorso di identità.
Al di là delle operazioni di ingegneria politica, l’Italia è un paese che si è sentito unito solo nel gioco, nella mente ingenua dei ragazzini. È proprio nel gioco infatti, che l’uomo ritorna bambino, ammirando dei ragazzi che corrono dietro a un pallone in vista della gloria. Poco importa che se quello stesso gioco oggi sia meno gioco, inquinato dal denaro e dagli interessi promozionali. Guardando il volto di Francesco e di tanti tifosi come lui, infatti, c’è da crederci, rimane quel residuo di gioia pura (che i più furbi scientemente sfruttano), così come rimane anche nell’esplosione di esultanza dei calciatori, in cui una parte, seppur marginale, è autentica – e non proiettata al pensiero futuro degli agi che un gol in quel contesto globale di visione e clamore comporterà. In un gol c’è ancora della purezza, una scintilla emozionale, genuina, al di là della materialità, sia per il tifoso quanto per il calciatore.
“L’Europeo è un’emozione diversa, atteso con trepidazione, un evento esclusivo di poche partite che da un’ adrenalina diversa”.
Parole di Alessandro altro tifoso del Napoli, di sessant’anni. Qui si ha a che fare con la storia, del rapporto tra uomo e storia, dell’evento irripetibile a cui si vuole assistere per sentirsene parte.
E quindi, anche stavolta, ci saremo noi, gli azzurri contro gli insopportabilifrancesi, detto tutto d’un fiato.
I rigidi tedeschi, quelli che gli azzurri “castigano sempre”.
Stereotipi goliardici che ristabiliranno un legame fra di noi almeno per quei 90 minuti. Confronti che ci faranno sentire orgogliosi, migliori, a volte peggiori del nostro avversario. Un evento, quello di Euro 2020, dove la vittoria ottenuta sul campo diventerà metafora e riscatto anche in altri aspetti avulsi dal rettangolo verde, storici, politici, e che promette in maniera speciosa di oscurare tutte le nostre lacune come paese.
Sì, forse, questi europei, saranno solo un cerotto su una ferita, un incanto passeggero, visto che l’odio campanilistico, nazionale ed le disfunzionalità territoriali hanno raggiunto negli ultimi anni il loro parossismo (un’overdose indotta dalle dinamiche social e web che più che unire hanno contribuito a dividere). È proprio per questo che abbiamo bisogno di un time out.
Rimanendo nella metafora pallonara, socialmente è come se fossimo su un campo da calcio, divisi in due schieramenie, gli uni contro gli altri, con la partita ormai incattivita e con la rissa ormai dietro l’angolo. Ci sono spintoni, sputi, a volte qualche schiaffo. Abbiamo bisogno di raffreddare gli animi, prima di tornare a ragionare e a discutere come comunità.
E questo proposito, solo uno sport magnifico come il calcio può rispettarlo.
Enrico Ciccarelli