Il 17 maggio è la Giornata internazionale contro l’omo-lesbo-bi-trans-fobia, una data simbolica per le soggettività queer in quanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità eliminò, nel maggio del 1990, l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali, definendola «una variante naturale del comportamento umano». Ciononostante, l’orientamento sessuale e l’identità di genere sono ancora causa di esclusione sociale ed economica in moltissimi Stati del mondo e comportano innumerevoli violazioni dei diritti umani: stigmatizzazione, aggressioni, criminalizzazione, bullismo, discriminazioni nel mondo del lavoro, nell’accesso ai servizi sanitari, nel godimento dei diritti sessuali e riproduttivi sono all’ordine del giorno.
Secondo Amnesty nel gennaio 2024, «sono ancora 63 gli Stati che criminalizzano gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso. Tra questi, otto prevedono espressamente la pena di morte e nove la reclusione a vita». Inoltre, «secondo i dati dell’Osce, nel 2022 sono stati perpetrati 1052 crimini d’odio in 36 Stati nei confronti della comunità LGBTQIA+. In 635 casi si è trattato di aggressioni fisiche, alcune delle quali sfociate in omicidi. Una cifra che restituisce solo la minuscola punta di un iceberg, non solo perché ovunque si tratta di un fenomeno sotto-rappresentato, ma anche perché queste cifre non tengono in alcuna considerazione i crimini d’odio commessi in quegli Stati in cui la violenza contro le persone LGBTQIA+ è istituzionalizzata e tollerata».
È evidente che la libera autodeterminazione di genere e sessuale delle soggettività queer non può essere raggiunta all’interno del sistema capitalistico che, quando non la reprime, si nutre proprio delle differenze connaturate alla queerness. Si tratta, dunque, di una dimensionalità che non deve essere analizzata da una prospettiva meramente individuale. A oggi, ci si focalizza prevalentemente su esperienze vissute e raccontate in maniera estremamente intimistica e personale, si fa spesso, quindi, esclusivamente riferimento all’essenza di una persona, alla sua identità, e mai a ciò che comporta la sua collocazione, in quanto dissidente sessuale, nella stratificazione sociale. Viene rimosso un dato di realtà: «il genere è attualmente il luogo in cui si naturalizza il lavoro di riproduzione delle classi sociali».
In un mondo in cui il nuovo culto laico è l’iper-individualismo e, di conseguenza, l’incessante preghiera rivolta al proprio ego, sembra che essere queer sia diventata un po’ una moda o un nuovo cerino da accendere sull’altare dell’Io. E no, non sto facendo riferimento ai discorsi, chiaramente riprovevoli delle destre xenofobe sulla fantomatica teoria gender, ma all’ingiustificata appropriazione di elementi della subcultura queer al fine di metterli a valore all’interno del sistema capitalistico. Nel mondo dell’intrattenimento il queerbaiting, infatti, viene utilizzato al fine di attirare quella fetta di pubblico queer che desidera vedere rappresentata la propria esperienza, ma si tratta di una mera strategia di marketing che non ha nulla a che vedere con la dimensione politica. Per non parlare dei movimenti LGBTQIA+ identitari, i quali non fanno che contribuire alla riproduzione dello status quo attuale. Si rende così necessario contestare le forme d’inclusione che non sono nient’altro che strategie commerciali di cooptazione in cui a essere inclusi sono sempre più consumatori, non soggettività effettivamente libere. L’antropologo marxista queer Gianfranco Rebucini afferma che «questa inclusione nell’ordine capitalista si realizza nella misura in cui si converte in consumatori accettabili». Dunque, la libertà sessuale o di genere attualmente non è altro che la libertà di riprodurre l’ordine socio-economico vigente.
Né l’uomo né la donna sono ruoli biologico-naturali, al contrario sono relazioni socio-economiche ben determinate e imprescindibili per il sostentamento e la riproduzione di un sistema – diviso in sfruttatori e sfruttati – energivoro e reificante che senza il lavoro salariato e riproduttivo collasserebbe. Quindi l’abolizione della differenza sociale, attraverso cui il capitale istituzionalizza i corpi come spazi di riproduzione delle classi sociali e della proprietà privata, passa per l’abolizione della famiglia e di una previa abolizione del lavoro retribuito. L’oppressione delle persone queer non è né anteriore né estranea alle relazioni di classe, ma anzi s’inscrive in esse. Ciò è estensibile anche ad altre dinamiche oppressive come il razzismo, l’abilismo e il sessismo che, sebbene si presentino come indipendenti l’una dall’altra, sono costitutive, invece, delle stesse relazioni di produzione e riproduzione del capitale. Riprendendo il manifesto per un marxismo queer del collettivo Rojo del Arcoíris: «la classe sociale non è un altro vettore di oppressione; tutt’altro: essa è la necessaria mistificazione di tutte le relazioni sociali affinché siano a servizio della produzione di plusvalore».
Fattualmente vi sono differenze e forme di sovversione che possono essere messe a valore, possono essere commercializzate. Motivo per il quale le istanze identitarie, quando fini a sé stesse rischiano di perdere qualsivoglia potere sovversivo e potenziale trasformativo del reale, se non addirittura di essere inglobate dal sistema e mercificate. Lo Stato può scegliere di proteggere alcune soggettività, di accogliere le loro istanze, ma nel fare ciò le cristallizza. Foucault ha evidenziato che il potere giuridico produce «ciò che dice soltanto di rappresentare». I soggetti, quindi, sono definiti in anticipo dalle regole che si dicono rappresentative e vengono riprodotti in accordo con le strutture dominanti. Questa protezione, che si rivela un palliativo subordinato a delle condizioni, rischia di eliminare qualsivoglia propulsione sovversiva delle soggettività oppresse, che rinunciano a uscire dalla cornice etero-patriarcale-capitalista e a immaginare nuovi modi di esistere fuori dalla norma. Si tratta, dunque, di un’emancipazione parziale finché si permane nelle medesime strutture di potere che riproducono l’assoggettamento e la repressione delle soggettività queer, anziché liberare il desiderio omoerotico e qualsiasi pulsionalità umana.
Celeste Ferrigno