L’espressione “arte indigena” (nota anche come etnografica o tribale) fa riferimento alle diverse produzioni culturali ad opera dei popoli indigeni, per l’appunto. Nel caso del continente africano, ci si concentra in particolare sulle regioni occidentali e centrali situate a Sud del Sahara. In passato tali forme artistiche venivano definite “primitive”, in un contesto caratterizzato da una percezione prettamente eurocentrica. L’idea che l’Africa fosse priva di civiltà e cultura ha influito in modo decisivo anche sulla considerazione che le produzioni del continente hanno avuto per molti secoli. In realtà, la tradizione dell’arte indigena africana è centenaria e ha visto il susseguirsi di numerose opere che si contraddistinguono per le tecniche e l’abilità con cui sono state realizzate. Già da molto prima delle incursioni europee nel continente, infatti, le diverse società hanno affrontato importanti cambiamenti, che hanno segnato anche l’universo artistico.
Fino al XIX secolo le forme d’arte tipiche dei popoli lontani dai Paesi occidentali non venivano considerate al pari di quelle europee. Sebbene anche gli artisti che vivevano in Africa – come in Oceania o America Latina – fossero delle figure determinanti nelle loro società. Impegnati a soddisfare le esigenze artistiche ed espressive della loro comunità, nel corso del tempo si sono affermati come dei veri e propri professionisti. L’arte indigena ha visto la luce all’interno di tradizioni e culture ben definite, fin da molto prima degli iniziali contatti con l’Occidente, e ne è una potente espressione. La quale, negli anni, è andata incontro ad una progressiva evoluzione.
In Africa l’arte indigena ha trovato la sua massima espressione nella realizzazione di sculture, statue e maschere. Le rappresentazioni bidimensionali hanno avuto minore riscontro, seppur non manchino opere e correnti pittoriche di grande rilievo. Un esempio è dato dal Tingatinga, uno stile artistico sviluppatosi in Tanzania e diffuso in altri Paesi dell’Africa orientale. Prende il nome dal suo creatore, Edward Said Tingatinga, e si caratterizza per i suoi colori accesi.
Le testimonianze più antiche
Nel villaggio di Nok, situato nella Nigeria occidentale, sono state trovate alcune delle più antiche testimonianze artistiche provenienti dall’Africa sub-sahariana. Secondo gli esperti, questo popolo si è stabilizzato nel territorio nel X secolo a.C. e tra il I e il II secolo d.C. ha conosciuto il suo periodo di massima prosperità. Sono poche le informazioni disponibili sui Nok, ma gli studi hanno evidenziato le loro abilità nella siderurgia e nella realizzazione di sculture in terracotta. Esse rappresentano principalmente volti umani e busti, oltre a teste di animali, con una tipica stilizzazione e una predilezione per le forme geometriche. La loro accuratezza è una prova tangibile della maestria degli artisti già all’epoca.
Un’altra area di rilevanza, per quanto riguarda l’arte indigena del continente, è quella nota come Ile-Ife (o solamente Ife), nella parte sud-occidentale della Nigeria, dove il popolo Yoruba ha avuto modo di fiorire. Una città-stato che, nel corso della storia, ha acquisito una notevole ricchezza e importanza, distinguendosi anche per le sue produzioni artistiche. Terracotta, ottone, lega di rame, bronzo e pietra venivano utilizzate per dare forma ad alcune delle più suggestive opere africane, tra le quali spicca la cosiddetta Testa di Ife – realizzata intorno al XII secolo d.C. e oggi esposta al British Museum di Londra.
Come avvenuto anche in altri casi, la qualità delle opere di Ife portò alcuni studiosi occidentali ad ipotizzare che non fossero realmente attribuibili ad artisti africani: le indagini svolte successivamente, però, andarono a confermare la competenza della popolazione locale. Le sculture raffiguravano in particolare figure umane (tra cui soggetti di corte), animali sacri e simboli tipici del potere (come i leopardi o gli elefanti), andando a creare un legame tra il mondo della politica – e la sua necessità di affermazione – e quello dell’arte, che si faceva in gran parte cerimoniale.
Maschere e sculture
Le maschera, da sempre, svolgono un ruolo centrale nell’universo mitico e religioso dei popoli. Diffuse, in particolare, in Paesi come Sierra Leone, Benin, Nigeria, Burkina Faso e Costa d’Avorio (per citarne alcuni), gli esempi sono numerosi e molto vari, sia per quanto concerne la tipologia dei materiali utilizzati che per l’aspetto decorativo e le loro dimensioni. Esse si rifanno, nella maggior parte dei casi, a figure zoomorfe o antropomorfe. Vengono sfoggiate in occasione di rituali, cerimonie, funerali, per iniziazioni o riti di fertilità, in momenti in cui la musica e la danza sono una parte imprescindibile. Anche le statue si legano al mondo soprannaturale: in tal caso, l’ispirazione viene dagli antenati e l’obiettivo è rendere omaggio ai defunti.
Tra i punti in comune delle vaste opere che rientrano nel panorama artistico africano, c’è lo stretto legame tra esse e il tessuto sociale e culturale dei popoli in cui hanno avuto origine. Queste possono essere definite “concettuali”, basandosi sulla rappresentazione di quelli che erano dei modelli simbolici ricchi di significato per la comunità in cui prendevano forma e andando ad assumere un’importanza centrale in un sistema fondato sulla trasmissione orale. L’obiettivo centrale era trasmettere, attraverso l’arte, la cultura e i valori di una comunità.
Una parte centrale è giocata dalle produzioni che avevano lo scopo di mediare tra il “mondo reale” e quello sovrannaturale: statue e maschere, in particolare, assumevano un significato sacro legato ai rituali praticati. Allo stesso modo, la rappresentazione di elementi connessi all’autorità di sovrani e leader rimandava all’intento di legittimare e tramandare il potere. L’arte indigena (al contrario di quanto affermato dagli studiosi e dai colonialisti europei dell’epoca) non era affatto priva di accezione, tecnica o valore culturale. Anzi, tutti questi erano elementi caratteristici delle produzioni nel continente, basate su un forte simbolismo.
Andando ad analizzare alcune delle sculture più antiche e di rilievo – come quelle ad opera dei Dogon (popolazione giunta nella falesia di Bandiagara, regione a sud del fiume Niger, nel XIII-XIV secolo) e dei Tellem (arrivati nell’area precedentemente, nel XI secolo, per poi essere probabilmente assorbiti dai primi), ma anche dei popoli preesistenti (definiti pre-Dogon da alcuni studiosi) – si notano, inoltre, alcune figure chiave. Un esempio sono i soggetti a braccia alzate, secondo diversi esperti in segno di invocazione alle divinità. Quella che si contraddistingue per una datazione più antica è risalente al X secolo.
Ricorrenti sono anche le figure ermafrodite che farebbero, invece, riferimento ai miti relativi alla creazione; ma anche soggetti femminili connessi ai concetti di fertilità e maternità. Tanto frequenti presso popolazioni come quella dei Djennenké, in cui venivano raffigurate antenate femminili, da far pensare all’esistenza di società matriarcali. A queste si aggiungono le rappresentazioni di cavalieri (che secondo alcuni studiosi potrebbero essere Hogon, ossia capi religiosi; mentre per altri potrebbe trattarsi più in generale di personaggi che ricoprivano una posizione di rilievo nella società) e figure umane di vario tipo.
L’impatto del colonialismo sull’arte indigena africana
Il colonialismo ha avuto un impatto molto forte sulla produzione dell’arte indigena africana. Come affermato in precedenza, per lungo tempo la concezione eurocentrica ha portato ad una scarsa considerazione di quest’ultima, vista per l’appunto come “primitiva”. L’idea di base era che l’arte non potesse nemmeno far parte della vita di una popolazione simile: una visione che si inseriva nei pretesti che andavano a giustificare la colonizzazione del continente e la sottomissione dei suoi popoli. Nel XIX secolo, tuttavia, ha iniziato a svilupparsi un crescente interesse nei confronti delle opere africane – pur sempre descritte come “inferiori” e meno “sofisticate”. Questo, però, ha determinato una successiva espropriazione delle stesse. Nel XX secolo, inoltre, si è assistito allo sviluppo del “primitivismo”, una forma d’arte che, per l’appunto, mirava a riprodurre le creazioni “primitive” dei popoli indigeni (poi accusata di perpetrare una visione stereotipata). I suoi massimi esponenti sono artisti come Paul Gauguin, Henri Matisse e Pablo Picasso.
Ad oggi, gran parte del patrimonio artistico dell’Africa non si trova nel continente, ma nei musei occidentali di tutto il mondo. Un argomento che, negli ultimi tempi, sta facendo sempre più discutere. La sottrazione delle opere degli artisti indigeni durante il colonialismo è stata definita, negli anni a venire, come una cancellazione del passato culturale dei popoli. Ciò ha portato Paesi come Germania, Francia e Regno Unito ad iniziare ad impegnarsi nella restituzione di produzioni provenienti dalla Nigeria e dal Benin, ad esempio. La speranza è di poter colmare quei «vuoti di memoria» provocati dall’espropriazione artistica a danno della popolazione africana, del passato come del presente (considerando l’impari distribuzione delle opere odierna e, di conseguenza, il mancato «accesso dei giovani africani alla propria cultura»), e denunciati dalla storica d’arte Bénédicte Savoy e dall’economista Felwine Sarr nella loro “Relazione sulla restituzione del patrimonio culturale africano. Verso una nuova etica relazionale” (2018).
Cindy Delfini