McDonaldizzazione: consumismo e ritualità collettive
McDonaldizzazione (Fonte: Behance)

La mcdonaldizzazione è un processo d’omologazione, di standardizzazione e di spersonalizzazione della produzione su larga scala, del soggetto lavoratore e delle merci che ne derivano, contrassegnato dal paradigma del produttivismo 24/7 e dalla vertiginosa velocità dell’iper-consumismo. Il termine è stato coniato nel 1993 dal sociologo statunitense George Ritzer per descrivere il fenomeno di iper-razionalizzazione della società globalizzata contemporanea prendendo, per l’appunto, spunto dal modello economico e produttivo della corporation statunitense di fast food McDonald’s. Difatti, tale modello organizzativo-manageriale, diffuso lungo il globo, presuppone la riproducibilità universale dei princìpi d’efficienza, di calcolabilità, di prevedibilità e di controllo.

Quindi la mcdonaldizzazione prevederebbe anzitutto l’ottimizzazione del processo di produzione tramite una stringente prescrittività tecnico-aziendale che sfocerebbe in una maniacale attenzione agli aspetti quantitativi – non qualitativi – del prodotto serializzato e venduto, riducendo al massimo i costi di produzione e i tempi di lavorazione: il lavoro diviene standardizzato per aumentare la velocità di servizio e i volumi di prodotto consegnati.

Successivamente comporterebbe l’assoluta garanzia per il consumatore che i prodotti e i servizi offerti da McDonald’s siano gli stessi dovunque grazie appunto a un’efficace programmazione e uniformità dei comportamenti e delle mansioni delle lavoratrici, dei lavoratori e della distribuzione e della vendita delle merci, anche con declinazioni di tipo localistico allo scopo d’adattarsi alle specificità delle diverse culture. Ciò si verifica sia mediante il costante sfruttamento ambientale, animale e della working class, sia mediante la parcellizzazione e la parziale sostituzione della forza-lavoro umana con l’automazione tecnologica al fine d’incrementare la produttività, sia mediante l’appropriazione e la brandizzazione della cultura e della gastronomia locale.

Siffatto modello di business produce – oltre a diverse malattie legate all’alimentazione e disastri ecologici – non solo una quantità ingente di prodotti scadenti e standardizzati, economicamente accessibili a un sempre più cospicuo numero di consumatori per lo più molto giovani e a reddito medio-basso; bensì una dimensione simbolico-comunicativa d’appartenenza collettiva e d’identificazione individuale. La società guidata dall’estetica del consumo pone il consumatore costantemente nell’a-temporale ed edonistico «adesso» affinché possa ricercare e collezionare quante più sensazioni intense possibili in uno stato di eccitazione costante, garantendogli finanche l’annullamento di qualsiasi senso d’incertezza e d’angoscia.

Dunque, il mondo nella sua totalità viene valutato in funzione della sua capacità di provocare sensazioni, ovverosia di scatenare il desiderio, unico scopo e aspetto più esaltante dell’esistenza del consumatore, più soddisfacente della soddisfazione medesima. Una sempre più crescente sensazionalità – materiale o immateriale che sia – diviene ciò di cui l’individuo perpetuamente iper-stimolato necessita per sentire un circostante fagocitato in un incessante processo d’astrazione e di simulazione, per sentirsi e per dimostrare in tutti i modi a sé e all’Altro d’esser vivo seppur socialmente atomizzato e disorientato.

Così attraverso la mcdonaldizzazione si egemonizzano determinate idee e consuetudini tipiche dell’american way of life frutto del modello capitalistico statunitense che instaura, pertanto, un generalizzato e surrettizio appiattimento sociale e culturale. Questa tendenza alla omogeneizzazione e alla iper-razionalizzazione è stata individuata in passato da Max Weber nella società industriale e capitalistica del ‘900, in virtù di ciò il sociologo Ritzer, in riferimento alla contemporaneità, sostiene che le società sono complessivamente assoggettate a disumanizzanti modalità di funzionamento analoghe all’organizzazione del McDonald’s, nel solco dell’alienante performatività generalizzata, della sorveglianza capillare, della spasmodica massimizzazione dei profitti e della realizzazione dell’irrazionalità della razionalità in un irrefrenabile susseguirsi d’immagini e di merci.

«L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dèi dell’Olimpo, ora lo è diventata per sé stessa. La sua auto-estraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine». (W. Benjamin)

McDonaldizzazione: feticismo della merce e ritualità capitalistica

Scrive Marx ne Il Capitale: «A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici». Ebbene, la merce rappresenta un potere sociale dal carattere mistico che va al di là del suo essere un mero oggetto di consumo. Così spesso il carattere sociale del lavoro appare come un elemento trascurabile delle merci stesse: i rapporti sociali fra i produttori e i riproduttori nello scambio sono condensati e alienati nella cosalità della merce o nell’astrazione dei servizi, scomparendo così del tutto.

Come nelle ritualità arcaiche i feticci sono oggetti a cui s’attribuiscono caratteristiche e poteri non insiti nella loro oggettualità, così alla merce vengono attribuiti caratteri sociali sovrasensibili e specularmente i rapporti sociali, ormai impersonali, vengono identificati con una singola cosa: la merce o il denaro. In virtù di tale capovolgimento tra soggetto e oggetto in seno al capitalismo, l’onnipervasivo feticismo delle merci determina la merce in sé e per sé, con il suo portato psicologico-emotivo, in quanto un oggetto di culto che strega l’intera vita sociale e qualsivoglia orizzonte di senso presente.

Il processo di mcdonaldizzazione nello specifico disvela l’aspetto mistico-religioso relativamente al consumo di junk food. Per molti consumatori, difatti, né le vantaggiose offerte economiche né il gusto o la qualità del cibo sono rilevanti, è essenziale interagire e riconoscersi in una ritualità individuale-collettiva rappresentata simbolicamente da un brand – inscalfibile e riconoscibile in ogni angolo del globo – che sopperisce illusoriamente al bisogno umano di sacralità soprattutto in un Occidente completamente capitalistizzato. Il McDonald’s et similia sono luoghi non solo di nutrimento, bensì di socializzazione e d’appartenenza indentitario-familiare. L’auto-affermazione del soggetto passa necessariamente attraverso la fidelizzazione e l’adesione a modelli precostituiti e forniti dal mercato: l’auto-definizione di sé è, in realtà, auto-adeguamento rispetto al marketing e agli standard di produzione e di consumo.

Così tutte le ritualità annesse al consumo del «cibo frankenstein» dei fast food come Burger King, KFC, McDonald’s e via discorrendo, sono, invero, un elemento di costruzione valoriale, identitaria e comunitaria oltre che di vetrinizzazione socio-culturale: il consumo inteso come soddisfacimento di un desiderio diventa mezzo di espressione individuale-collettiva. In generale la libertà nella postmodernità è l’urlo strozzato dell’individuo che fa del consumo la propria praxis teologico-realizzativa, fa, quindi, della scelta del prodotto da consumare la propria autentica libertà e dell’immagine esteriore che ne risulta la propria identità in una successione bulimica che non prevede mai un reale stato di appagamento.

Padroni del cibo e crisi alimentare

Al giorno d’oggi si produce più cibo di quanto sia mai accaduto nella storia dell’umanità, eppure – stando al rapporto dell’ONU sullo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione del 2022 – il 29,6% della popolazione mondiale, pari a 2,4 miliardi di persone, non ha avuto accesso costante al cibo nell’ultimo anno, di cui 828 milioni soffrono di grave denutrizione. In più, stando al rapporto FAO 2019, il 30% del cibo prodotto ogni anno non viene consumato: 1,3 miliardi di tonnellate d’alimenti che potrebbero ampiamente sfamare a livello globale le persone che soffrono e muoiono di denutrizione ogni anno. Dunque, uno dei problemi principali all’interno dell’attuale sistema alimentare è il modo di produzione, d’organizzazione e di distribuzione delle risorse alimentari: le corporations – decidendo cosa produrre, come e dove venderlo – si sono assurte a nutritrici del mondo, con miriadi di supermercati e fast food, controllando così le terre, l’acqua, i semi necessari per coltivare i raccolti, in sintesi di tutta la catena alimentare.

La reperibilità degli alimenti è così stabilita dallo strapotere delle corporations del cibo indipendentemente dalla stagione, dalla geografia, dalla quantità di specie disponibili e dalla gamma completa di gusti e alimenti. La creazione delle fast food nation, la produzione e la distribuzione del wealthy food acquistabile nelle varie catene di supermercati, sono il frutto del medesimo processo di monopolizzazione e mcdonaldizzazione che contribuisce in tal senso all’incremento della malnutrizione infantile, del tasso di mortalità e delle disuguaglianze economico-sociali, al dissanguamento della sanità pubblica, al sovrasfruttamento del suolo e delle risorse idriche, alla deforestazione, al water grabbing, all’emissione di gas climalteranti, alla contaminazione degli oceani, al metodico massacro animale e allo sfruttamento umano.

Il paradosso del mercato agro-industriale è ancor più lampante se si considera che gran parte dei cosiddetti hotspot della fame risultano essere anche i maggiori esportatori di cibo. Le potenze imperialiste sfruttano la manodopera ed estraggono materie prime, cibo e prodotti finiti dai Paesi più poveri a prezzi bassi ma instabili, esportando a loro volta prodotti finiti a prezzi più alti. Ciò comporta ingenti trasferimenti netti di ricchezza, di anno in anno, dai Paesi poveri ai Paesi ricchi. Il principio-motore che sorregge, difatti, il modello di mcdonaldizzazione è quello dell’accumulazione per l’accumulazione; perciò, è necessario sovraprodurre per vendere all’infinito laddove possibile, di conseguenza è necessario che vi sia una domanda potenzialmente inesauribile, affinché il consumo derivante dalla domanda non si esaurisca questo processo deve auto-alimentarsi attraverso lo sfruttamento illimitato delle esauribili risorse umane e planetarie.

Capitalismo, pertanto, significa produzione per il profitto, non per il fabbisogno e, nel caso specifico, comporta sia la tendenziale scomparsa delle biodiversità, sia il perpetuarsi d’un sistema alimentare strutturato sull’ingiustizia economica e razziale con l’annessa distruzione sistematica d’immense derrate alimentari che non riescono a trovare un mercato, mentre c’è chi muore letteralmente di fame.

A tal proposito, scrive l’economista Raj Patel: «Quando si introducono i mercati nel settore alimentare, si instaurano due regole molto semplici. La prima regola è la seguente: se hai soldi puoi procurarti il ​​cibo da qualsiasi parte del mondo. L’altra regola che i mercati impongono è questa: se non hai soldi, morirai di fame. Questo è un punto fondamentale… Il motivo per cui le persone muoiono di fame è a causa della povertà, non a causa della carenza di cibo ma solo perché l’unico modo per accedere al cibo è attraverso il mercato». L’auto-perpetuantesi capitalismo è così dispotismo esercitato in nome d’una razionalità iper-produttiva e computazionale, una forma di razionalità economico-simbolica né neutrale né formalmente astratta in quanto determinata da precisi attori sociali e, allo stesso tempo, impersonale in quanto prescinde dalle singole personificazioni empiriche agenti nel processo complessivo.

Il processo di mcdonaldizzazione riflette così una chiara, seppur proteiforme, idea di mondo che si diffonde a livello locale e globale affinché possa naturalizzarsi sia mediante la colonizzazione dell’immaginario, sia mediante la sua riproduzione nella vita quotidiana e nelle pratiche degli individui. Dunque, il trionfo totalizzante del capitalismo finanziario è tanto più radicale in quanto crea una percezione normalizzata degli eventi, una percezione che non si presenta con i tratti ideologici di una determinata ragione socio-economica, bensì come la natura stessa del mondo, come l’essenza immutabile dell’homo oeconomicus.

Ovviamente – trascendendo qualsivoglia forma di moralismo – essendo siffatte problematiche, come la mcdonaldizzazione, di natura sistemica non sono ascrivibili esclusivamente alla volontà e alle scelte del singolo. Cosicché limitarsi a criticare chi sceglie McDonald’s o Burger King senza porsi il problema di individuare concretamente alternative locali e globali eco-sostenibili e collettiviste in contrapposizione all’attuale metastatico paradigma – in termini sia di costi umani e non-umani, sia di immaginari – è comunque parte del problema.

Gianmario Sabini

Gianmario Sabini
Sono nato il 7 agosto del 1994 nelle lande desolate e umide del Vallo di Diano. Laureato in Filosofia alla Federico II di Napoli. Laureato in Scienze Filosofiche all'Alma Mater Studiorum di Bologna. Sono marxista-leninista, a volte nietzschiano-beniano, amo Egon Schiele, David Lynch, Breaking Bad, i Soprano, i King Crimson, i Pantera, gli Alice in Chains, i Tool, i Porcupine Tree, i Radiohead, i Deftones e i Kyuss. Detesto il moderatismo, il fanatismo, la catechesi del pacifismo, l'istituzionalismo, il moralismo, la spocchia dei/delle self-made man/woman, la tuttologia, l'indie italiano, Achille Lauro e Israele. Errabondo, scrivo articoli per LP e per Intersezionale, suono la batteria, bevo sovente per godere dell'oblio. Morirò.

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