Da diversi anni Cina e Stati Uniti sono impegnati in un confronto politico, economico e strategico per la leadership globale. Da quando Xi Jinping è salito al potere ha cominciato a rivendicare un ruolo di primo piano per il proprio Paese, la cui influenza non si limitasse a una misera fetta di Estremo Oriente ma che fosse in grado di travalicare i confini del continente asiatico e di estendersi al resto del mondo. Un obiettivo ambizioso, ma perseguibile. Ad oggi la Cina è pienamente integrata nei processi economici e altamente competitiva in tutti i settori. Nel suo discorso tenuto il primo luglio scorso, in occasione del centenario del Partito Comunista Cinese, Xi Jinping ha stilato un resoconto degli ultimi cento anni di storia cinese, indicando i risultati conseguiti e stabilendo gli obiettivi futuri. Tra questi, oltre a propositi di respiro internazionale, ce n’è uno che all’apparenza sembrerebbe puramente retorico: la riunificazione con Taiwan.
Taiwan si trova all’incrocio tra il Mar Cinese Meridionale, Orientale e l’Oceano Pacifico ed è composto da un’isola di 36mila kmq, da arcipelaghi e isolette minori. Si tratta di uno stato riconosciuto da meno di una ventina di Paesi nel mondo, con circa venti milioni di abitanti e con uno tra i PIL più elevati al mondo.
Nel 2021 la Cina ha fatto transitare circa 600 aerei nello spazio di difesa di Taiwan e si sta esercitando per una possibile invasione dell’isola. I piani del dragone, però, potrebbero essere rovinati dall’attenzione del diretto rivale cinese per la leadership globale: gli Stati Uniti. Anche gli USA sono interessati a Taiwan, in particolare alla sua indipendenza. Gli americani non hanno relazioni dirette con la piccola isola di Formosa: sono solo informali, ma non è un segreto che stiano addestrando e armando le truppe locali nel caso in cui Xi Jinping decidesse di intervenire. Entrambi i contendenti sono intenzionati a non rinunciare ai rispettivi obiettivi: i cinesi faranno di tutto per annettere – prima o poi – Taiwan, mentre gli americani difenderanno strenuamente l’indipendenza della piccola repubblica. Perché un’isola così piccola risulta così importante nei progetti egemonici di Cina e Stati Uniti?
Taiwan e Cina, tra economia e nazionalismo
Taiwan è stata sotto il controllo degli imperi cinesi circa due secoli, dal 1661 al 1895, quando l’isola di Formosa (“isola bella”, dal nome che i portoghesi diedero al territorio) fu integrata nei territori delle dinastie Ming e Qing. A dire il vero, le due dinastie non nutrivano un grande interesse per Taiwan, tanto che gli imperatori si riferivano alla piccola isola come ad un “provincia extraterritoriale“. Complice uno storico rifiuto per il mare, gli imperatori hanno sempre preferito la terraferma, almeno fino a quando non hanno compreso l’importanza delle rotte marittime.
Ad oggi, la situazione è totalmente cambiata. Il mare è tornato centrale e il nuovo “imperatore comunista” è convinto che la sua Cina riuscirà a vincere i suoi fantasmi. Per Xi Jinping, “novello Mao” del XXI secolo, la riunificazione con Taiwan non è solo una questione nazionale, è una cosa necessaria: è l’unico modo per superare il “secolo delle umiliazioni“, cioè quel periodo compreso tra il 1839 e il 1949, cioè tra la prima guerra dell’oppio e la fondazione della Repubblica Popolare. In quel periodo la Cina perse la sua sovranità a vantaggio delle grandi potenze occidentali e il temibile impero giapponese.
Nel 1949, dopo una lunga lotta interna tra i comunisti di Mao e i nazionalisti di Chang Kai-Shek, il Partito Comunista prendeva il potere, costringendo gli sconfitti a rifugiarsi sull’isola di Formosa. Da allora le relazioni tra le “due Cine” sono state sempre conflittuali, almeno fino al 1992, quando con un accordo, il “Consenso del 1992“, i rapporti vennero leggermente mitigati. Il documento fu firmato dal Partito Comunista Cinese e dal Kuomintang, il partito nazionalista taiwanese. Sul contenuto entrambi i firmatari ne danno una lettura diversa. I cinesi ritengono che con la firma Taiwan abbia accettato il principio “Una sola Cina”, mentre i taiwanesi sono convinti che l’accordo sancisca quanto le due parti siano sì inseparabili ma con l’esecutivo di Taipei come unico legittimato a governare. Recentemente la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen del Partito Progressista Democratico, ha disconosciuto l’accordo del 1992.
Nel 2021 Taiwan è uno dei Paesi più sviluppati al mondo, considerata una delle celeberrime “tigri asiatiche”, protagonista di un notevole processo di democratizzazione che pone la piccola isola all’avanguardia sotto il profilo dei diritti umani e civili. È il più grande produttore di micro-chip nel mondo, cioè gli importanti semiconduttori al centro della lotta egemonica tra Stati Uniti e Cina. Inoltre, accanto a Taiwan passa una rotta che collega l’Estremo Oriente all’Oceano Atlantico e al Mar Mediterraneo. Non si tratta di una rotta qualunque, dato che per di lì transita circa il 60% dei volumi commerciali dell’intero pianeta.
Dunque, oltre a motivazioni squisitamente politiche, legate all’orgoglio patrio e al nazionalismo (il topos della riunificazione è propagandisticamente centrale nella narrazione cinese), l’annessione di Taiwan, che Xi Jinping vorrebbe realizzare entro il 2049, cioè entro il centenario della Repubblica Popolare, è legata anche a motivi puramente economici e strategici. Nel primo caso, con l’annessione dell’isola di Formosa la Cina farebbe un passo decisivo nella guerra tecnologica, ottenendo il monopolio dei semiconduttori. Per comprendere quanto i microchip siano importanti, basterebbe fare riferimento alla recente crisi automobilistica provocata dalla loro assenza.
Nel secondo caso, è risaputo che l’isola sia uno dei principali snodi logistici dell’Asia orientale: la posizione strategica è cruciale per diversi motivi. In primis perché garantisce la libera circolazione della marina statunitense. Inoltre, la sua collocazione permette alla marina degli Stati Uniti di contenere l’influenza marittima cinese in un raggio d’azione ben delimitato. Assieme alle Filippine, Taiwan costituisce una “muraglia” naturale che permette agli Stati Uniti di tenere sotto controllo le rotte asiatiche, impedendo lo sbocco alla marina cinese nel bacino del Pacifico Orientale. La Cina, nel caso in cui ponesse fine all’autonomia di Taiwan, potrebbe rompere questa catena e proiettare la sua flotta, la più numerosa del mondo, ben oltre le “colonne d’Ercole” posizionate dagli americani.
Gli Stati Uniti e la necessità di un contenimento
La marina degli Stati Uniti domina le rotte oceaniche da decenni: dall’oceano Pacifico all’Atlantico, le navi americane garantiscono la libera circolazione delle merci nell’ottica della globalizzazione. Nello specifico, gli USA hanno costruito basi militari in tutti gli Stati di loro interesse e monitorano le zone più calde del pianeta, i cosiddetti “colli di bottiglia“, cioè punti strategici attraverso i quali transitano consistenti volumi di merci e che sono vitali per la circolazione marittima. Difendere a tutti i costi la sicurezza delle rotte in questa zona è fondamentale per il mantenimento della leadership globale. Gli americani, per questo motivo, hanno creato un cordone di sicurezza economico e politico attraverso alleanze militari, accordi commerciali e di difesa.
Gli Stati Uniti sanno benissimo che la Cina punta al controllo del Mar Cinese Meridionale per scompaginare i piani di Washington e imporsi nello scacchiere più strategico e caldo dell’intero pianeta. I disegni egemonici di Pechino mettono in discussione il ben noto principio della “pax americana“, prevedendo di spostare la frontiera del dragone di diverse migliaia di chilometri dalle proprie coste per compiere un “balzo” per connettersi al resto del mondo attraverso il progetto della Nuova Via della Seta. Gli americani, detenendo il controllo militare – attraverso la Settima Flotta – delle acque e appoggiandosi a barriere naturali come Taiwan, le Filippine e il Giappone, rappresentano l’unico argine alle “smisurate ambizioni cinesi”.
Le preoccupazioni americane sono emerse soprattutto a partire dai primi anni duemila, quando la Cina si è prepotentemente riaffacciata sulla scena politica mondiale. Dalla fine della Guerra fredda gli americani avevano relegato in secondo piano lo scenario strategico dell’Indo-Pacifico, dato che non c’era più il rischio di una diffusione del comunismo sovietico a causa dell’implosione dell’URSS. La crescita dell’influenza politica, economica e militare cinese ha costretto gli USA ad interessarsi nuovamente a questo quadrante rimettendo in piedi le relazioni con l’ASEAN e cercando di isolare diplomaticamente la Cina.
A questo proposito la presenza di un bastione democratico come Taiwan è fondamentale. Oltre a fungere da barriera naturale allo strapotere militare cinese, la piccola isola di Formosa è anche il famoso ago della bilancia nella guerra tecnologica tra Stati Uniti e Cina. Garantirne l’indipendenza è, quindi, fondamentale. Per questo motivo gli americani stanno armando e addestrando le truppe taiwanesi. In caso di invasione, infatti, l’obiettivo non è quello di respingere l’attaccante ma fiaccarne le certezze. Sull’isola gli esperti americani stanno installando dei sistemi di difesa che rendano difficile uno sbarco in grande stile – complice anche la poca dimistichezza cinese con gli attacchi anfibi. Ritardare i piani cinesi è importante affinché gli americani e gli alleati abbiano l’opportunità di intervenire nel più breve tempo possibile.
Tenere alle strette la Cina, però, ha un costo. Il pegno da pagare è un passo indietro in tutti gli altri scenari geopolitici mondiali. Dall’Europa, dove l’influenza russa è tornata forte, al Sudamerica dove, nel frattempo, la Cina sta mettendo le radici. Senza sottovalutare l’Africa, che alcuni considerano il futuro terreno di scontro tra le superpotenze. A differenza dell’Unione Sovietica, la Cina ha molte armi a disposizione. A Washington, però, interessa soprattutto convincerla che una guerra militare non avrà nulla di vantaggioso. Insomma, Taiwan rappresenta perfettamente quel flebile argine al rapido sconvolgimento della “politica dell’equilibrio” del secolo americano.
Donatello D’Andrea