Rina Faccio, in arte Sibilla Aleramo, pubblica nel 1906 “Una donna”, romanzo (edito Feltrinelli) che lei stessa dice sancire la sua nascita come scrittrice e che ha attraversato ormai più di un secolo. Già nel 1956 Aleramo ormai ottantenne scrive in una lettera ad Arnoldo Mondadori: “…il mio primo libro Una donna avrà a novembre cinquant’anni, perché i giovani si stupiscono ch’io, mezzo secolo fa, scrivessi per i giovani d’oggi e per quelli che vivranno il secolo venturo” […] “io ho dinanzi a me il futuro anche se voi non lo vedete”. Le parole di Sibilla Aleramo, direttamente dal romanzo, ci parlano della vita della scrittrice. Una vita che diventa, incarnando un prototipo dopo l’altro, esemplificativa delle tappe di un processo di evoluzione femminile modello per le generazioni future.
Adriana Chemello (“Una Bildung senza roman. Donne in divenire” in “Il romanzo del divenire. Un bildungsroman delle donne?” a cura di Bono e Fortini, edito Iacobelli Edizioni), in relazione alle scritture femminili, parla di un “romanzo del divenire”, simile ai Bildungsroman degli eroi, dove troviamo una donna che evolve dall’ingenuità dell’infanzia alla consapevolezza della maturità, in un viaggio interiore e conflitto tra norma e ribellione, dove la protagonista è accompagnata da altre donne madri, maestre o compagne. Qui la scrittura diventa per la donna elemento chiarificatore e ordinatore: “la Bildung femminile si compie nell’acquisire consapevolezza di sé, della forza della propria volontà. […] per divenire una persona consapevole, […] per potersi pensare “alla grande” e farsi padrona del proprio destino”.
Una Donna, di Sibilla Aleramo nel 1906 rappresenta un punto di rottura nella narrazione del femminile. D’altra parte, l’autrice stessa non può che essere una colonna portante del femminismo italiano, dichiarando già nel 1897 “credo fermamente che il femminismo sia una delle leve che rigenereranno il nostro vecchio mondo”. Un femminismo dei bei tempi saldamente intersecato alla riflessione sulle forme sociali dell’oppressione e della subalternità.
«Era a colazione da noi il padrone di fabbrica, un blasonato milionario. Questi aveva sfogliato una rivista alla quale mio padre era abbonato. La trovava bella ma ‘troppo cara’. […] m’ero troppo incoraggiata a chiacchierare, perché parlando del mio ufficio, avevo detto la ‘nostra fabbrica’. E correggendomi la mamma, il conte aveva soggiunto: “Lasci! È come il mio cocchiere che dice i ‘miei cavalli’”. La stizza che mi aveva invasa subitamente aveva anche scossa la mia cognizione della società.»
In Una Donna, Aleramo colloca l’uscita dall’infanzia in un’adolescenza funesta tra vari eventi emblematici, tra cui lo stupro. Sotto i riflettori la violenza reiterata nel matrimonio, la maternità, la malattia nella demenza della madre e depressione della protagonista, la coscienza del proprio male e il sentimento di rivolta che rispecchiano con tragica lucidità l’ordine patriarcale, che più di cento anni dopo non risulta cedere il passo. Dopo un tentativo di suicidio, la protagonista del romanzo ritrova nella lettura e scrittura motivo d’esistere, ritrova futuro e destino, che la estraniano da un matrimonio senza amore proiettandola al di fuori della condizione stereotipica di sacrificio della donna e della donna madre.
«Di madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio. È una mostruosa catena. Tutte abbiamo, a un certo punto della vita, la coscienza di quel che fece pel nostro bene chi ci generò; e con la coscienza il rimorso di non aver compensato adeguatamente l’olocausto della persona diletta. Allora riversiamo sui nostri figli quanto non demmo alle madri, rinnegando noi stesse e offrendo un nuovo esempio di mortificazione, di annientamento. Se una buona volta la fatale catena si spezzasse, e una madre non sopprimesse in sé la donna[…]? »
La forza espressiva di Sibilla Aleramo si concretizza in questa autobiografia estetica che sublima il vissuto e il romanzesco in un esempio per tutte noi.
Ivana Rizzo