La tragedia greca continua ad essere un tema caro alla rubrica Lettere in Soffitta. Dopo il breve incontro con l’Orestea di Eschilo (525 a.C – 456 a.C), unica trilogia sopravvissuta e culmine della maturità poetica del tragediografo, affronteremo un’altra nota pietra miliare: l’ Edipo Re  di Sofocle.

Sofocle, secondo della triade drammaturgica per ordine cronologico, nacque in un sobborgo di Atene, Colono, nel 496 a.C. circa e morì nel 406 a.C., mentre giungeva a termine la rovinosa guerra contro Sparta e, quindi, anche l’egemonia ateniese. Fu testimone diretto dunque dell’escalation politica di Pericle quanto del suo declino. Compose circa 130 opere teatrali, di cui restano solo 7 tragedie.

Particolarmente legato alla vita politica della polis, è stato più volte designato come esempio di una poesia squisitamente classicistaicona, insieme a Fidia, di un’aurea Atene di età periclea.

Un classicismo, in  realtà, di sola facciata che nasconde significati sfuggenti e intricati. Non a caso, le sue tematiche sono intrise dei dibattici che infuocavano le grandi menti del suo tempo: si parla di leggi nell’ Antigone, quanto di politica e dell’esile confine tra libertà individuale e ingerenza statale (nel Filottete, ancora nell’Antigone  e nell’Aiace).

A Sofocle si deve la decisione di scindere un verso tra due personaggi (αντιλαβή) e l’introduzione del terzo attore, così da creare maggiore fluidità nei dialoghi. Aumenta il numero di coreuti da 12 a 15 e si dedica a migliorie per gli scenari e i vari macchinari scenici.  Cosa più importante di tutte è senza dubbio la sua scelta, a differenza di Eschilo, di accantonare la trilogia legata: un vero e proprio atto di rivendicazione di autonomia del dramma dalle trame mitiche collettivamente conosciute.

Sicuramente centrale è l’eroe tragico: il protagonista primeggia, perché isolato dal dolore e dai cataclismi che lo affliggono ed emerge grazie alle qualità morali e intellettuali con cui tenta di gestirli.

La tragedia sofloclea, d’altro canto, non si risolve solo nel presentare i dolori del malcapitato o nel dimostrare le sue virtù, ma si nutre anche dello spessore psicologico dell’eroe, il quale, con il fluire della intreccio, acquisisce una sempre maggiore consapevolezza della propria disgrazia. Questo è il marchio del poeta: concentrare in epici colpi di scena ciò che la vita riserva ai mortali con lo scorrere del tempo. Caso esemplare è proprio nell’ Edipo Re: il dolore  e la conoscenza arrivano in un sol giorno, rovesciando ogni ragionevole sicurezza e dimostrando quanto sia fragile la terra su cui l’uomo fonda la propria esistenza.

Dunque Sofocle lascia il proprio personaggio solo in scena, a soffrire per le proprie pene spesso fino a morte immeritata e sottoponendolo, nella maggior parte dei casi, al peso di azioni passate che forgiano il presente.

Per quanto concerne il personaggio di Edipo, un sequel esiste: l’Edipo a Colono. Medicante, allontanato da tutti, Edipo è accompagnato dalla sola figlia Antigone nel suo esilio. Il destino si è compiuto, la storia ha fatto il suo corso e secondo ragioni che non si possono conoscere.

La tragedia postuma serve al poeta per accomiatarsi dal pubblico, regalando come chiusa la massima tipica del pessimismo greco: “non nascere, ecco la cosa migliore; e se si nasce, tornare presto da dove si è venuti”.

Ma qual è la storia di Edipo?

Edipo ottiene il regno di Tebe dopo aver risolto l’enigma della Sfinge e, inevitabilmente, ne conquista anche la regina rimasta vedova, Giocasta (che si scoprirà essere sua madre). In città scoppia un’epidemia che decima la popolazione e, per tale motivo, vengono inviati dei messaggeri a Delfi affinché se ne comprenda la causa. Il male sarà sanato, una volta trovato l’assassino di Laio: questa è la sentenza dell’oracolo. Edipo promette di far luce sul caso: maledice il colpevole e lo condanna all’esilio. Il nodo comincia a sciogliersi quando l’indovino Tiresia, incalzato dalle domande del re, rivela ad Edipo di essere proprio lui il responsabile. Un antico vaticino recitava infatti che la morte di Laio sarebbe avvenuta per mano del figlio ma la verità, afferma Giocasta, è che è stato ucciso lontano da casa, ad un trivio e il loro figlio è stato esposto subito dopo la nascita, onde evitare il parricidio. La tragedia scoppia quando Edipo apprenderà di essere stato adottato, cominciando a dubitare fortemente della sua innocenza: per via di un incidente, aveva  in effetti ucciso un uomo ad un trivio tempo addietro. La verità schiacciante verrà confermata dal vecchio pastore che ammetterà di aver condotto il piccolo Edipo sul monte Citerone, per salvarlo così da morte certa ma “per più grande sventura”. Allora Giocasta, distrutta, una volta rientrata nella reggia, decide di impiccarsi e Edipo, carico del proprio fardello, si acceca nella camera nuziale.

“O luce, ch’io ti veda per l’ultima volta

Io che sono nato da chi non dovevo nascere

Io che mi sono unito con chi non dovevo unirmi,

io che ho ucciso chi non dovevo uccidere.” (vv. 1183-1185)

Aristotele, nella Poetica, cita l’Edipo Re come esempio perfetto di tragedia: la sola a mostrare la rovina dell’uomo in un sol giorno e per άμαρτία, un atto colpevole ma inconsapevole. Questa è la vera tragedia: l’insanabile conflitto tra predestinazione e libertà d’azione. Edipo è responsabile della propria sciagura pur non volendo, si è macchiato di sacrilegio, è ϕαρμακός del proprio male, che lui stesso ha maledetto ma, allo stesso tempo, è l’unico a voler sapere quando tutti fuggono la verità.

Chi, dunque, ha davvero peccato?

 

Pamela Valerio

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