In Occidente la Covid è un gigante mediatico che tutto fagocita e non si ha il tempo per pensare ad altro: eppure sono ormai nove mesi che in Thailandia è in atto una protesta vitale e coraggiosa, che impegna milioni di persone nella lotta per riformare un Paese il cui sistema di potere è profondamente retrogrado e corrotto. I protagonisti, come spesso accade in questi casi, sono i giovani studenti, che sfidano il regime per il loro futuro: quella della Thailandia, perciò, è una storia di resistenza e spontanea consapevolezza democratica che è necessario conoscere e raccontare.
La Thailandia, la monarchia e la “maledizione dei golpe”
Fino al 1932, la Thailandia era una monarchia assoluta. Poi la Rivoluzione siamese, portata avanti da un’alleanza tra civili e militari, ha imposto la monarchia costituzionale. Da allora, però, il percorso verso il progresso democratico è stato a dir poco accidentato, se non inesistente. Colpi di Stato militari si sono succeduti molto frequentemente: solo durante il regno del sovrano Rama IX, morto nel 2016, sono stati ben 12. Il figlio Maha Vajiralongkorn, Rama X, aveva finora goduto di una relativa tranquillità, aiutato dal suo comportamento a dir poco bizzarro.
Residente in Baviera, ha deciso di disinteressarsi degli affari del Paese, godendosi la sua fortuna di monarca più ricco del globo (con una fortuna stimata tra 30 e 60 miliardi di dollari) in compagnia delle sue concubine, senza spostarsi dalla dorata Mitteleuropa. Al governo ci sono rimasti i militari, o meglio il loro volto preminente, una sorta di Giano bifronte che ha smesso la divisa per gli abiti civili: l’attuale primo ministro Prayuth Chan-o-cha, ex capo delle Forze Armate, riciclatosi in colletto bianco una volta che delle elezioni pseudodemocratiche hanno dato a lui e alla sua coalizione “politica” la vittoria nel 2019.
Elezioni, ovviamente, molto contestate per la loro dubbia regolarità, inquinate dai papaveri della Giunta militare al potere dal 2014 e che per lungo tempo aveva rinviato il voto in attesa delle “migliori condizioni”. Prayuth Chan-o-cha c’era anche allora. Ma l’abito non fa il monaco: nella migliore tradizione del potere gestito dall’esercito, il primo ministro di Thailandia prosegue col suo governo autoritario supervisionato dagli ex colleghi, che in particolare hanno ancora il potere di nomina di un Senato (il Parlamento di Bangkok è formalmente bicamerale) asservito a questa dittatura mascherata.
La Camera bassa è l’unica eletta dal popolo e lì resiste ancora qualche partito di opposizione, ma senza capacità di incidere direttamente sull’indirizzo politico generale. La repressione viene mascherata da Stato di diritto, per quanto di giuridico e legale ci sia ben poco in un sistema che ancora prevede i reati di espressione, e non guarda in faccia nemmeno ai media stranieri, affidati preferibilmente alla cognizione dei tribunali militari; la Costituzione conta ben poco, perché storicamente carente di legittimità (è stata riscritta e riformata innumerevoli volte) e perché utile solo a proteggere privilegi e prerogative di un re assente e del potere-ombra della Giunta militare.
L’esplosione di una protesta “giovane”
L’equazione è semplice: il re, che la Costituzione impone di venerare come una divinità, si disinteressa del governo vivendo all’estero foraggiato dai soldi pubblici; con la connivenza del sovrano silente, i militari continuano a controllare il governo; qualsiasi richiesta di modifica dello status quo viene repressa in nome del re complice, che così diventa una sorta di paravento e prestanome di un regime che non può essere abbattuto.
Questo accordo tacito tra monarca e dittatori diventa ancora più semplice da attuare, quando la maggior parte della popolazione della Thailandia, ancora poco alfabetizzata e con un tasso di disuguaglianza economica e culturale altissimo tra città e vastissime campagne, crede davvero che il re sia una figura sacra. In questo quadro, la cosa curiosa è che, in un Paese che basa il 20% del PIL sul turismo internazionale, il regime di Bangkok è uno dei pochi che non si è storicamente retto sugli interessi della grande classe dirigente capitalista.
Thaksin Shinawatra e la sorella Yingluck, membri di una famiglia di magnati con interessi imprenditoriali in tutto il mondo, erano diventati proprio dei popolari leader politici riformisti e antimilitari ed entrambi primi ministri: vennero spazzati via da una grave crisi politica che, tra il 2006 e il 2014, portò all’ultimo golpe della Giunta e all’assetto di potere attuale. Si può dire che il movimento delle “camicie rosse“, che ha una parentela solo cromatica col socialismo, fosse guidato proprio da una certa parte dell’élite altoborghese e imprenditoriale, che chiede ancora oggi un’apertura definitiva della Thailandia alla comunità internazionale. In realtà, con il cambio di volto del regime militare del 2019 anche questo fronte di opposizione istituzionale si è molto indebolito: inseguiti dalla repressione, gli Shinawatra si sono praticamente arresi insieme a buona parte della loro “casta”. Insomma, il sistema thailandese sembra blindato e difficile da scalfire.
Tuttavia a febbraio 2020, e dopo una lunga pausa per il lockdown anti-Covid, a luglio, agosto e infine a settembre e ottobre tantissimi studenti hanno cominciato a scendere in piazza. La nuova generazione ha preso il comando delle operazioni contro il regime, dopo che quella dei loro genitori ha dovuto arrendersi. Internet e la cultura pop (dalla saga di Hunger Games, da cui è stato mutuato il saluto a tre dita della ribellione, fino agli artisti più in voga della musica commerciale sudcoreana) sono serviti allo scopo e la protesta si è fatta imponente.
La contestazione ha abbracciato tutti gli aspetti più contestati della monarchia della Thailandia: intangibilità della figura regia, attitudine alla repressione politica e al soffocamento della libertà di espressione da parte dell’esercito, fino al Senato di marionette dei militari e al premier Prayuth Chan-o-cha, di cui si chiedono le dimissioni. Il Free Youth Movement ha pian piano guadagnato terreno nelle piazze nonostante i coprifuoco imposti dalla polizia. I protagonisti della protesta, probabilmente ispirati anche dalle recenti vicende di Hong Kong, sono oramai volti noti e celebri in tutto il Paese: è per questo che molti sono stati già arrestati, come Panasaya Sitthijirawattanakul, che dalla prigione è comunque riuscita a trasmettere un toccante messaggio ai suoi compagni di lotta, in cui li invitava a resistere nonostante il clima di terrore instaurato dal governo.
La repressione: una carta (si spera) perdente
Oltre agli arresti la piazza di Bangkok ha dovuto sopportare cariche, proiettili di gomma e idranti aperti sulla folla, non a caso finiti anche sotto la lente dell’ONU. Allo scopo di delegittimare e quindi reprimere più efficacemente la protesta, i militari si sono appellati al retaggio politico-culturale più radicato in Thailandia, alla base del compromesso tra re ed esercito per il mantenimento del potere: la figura regia. Infatti, ai manifestanti sono stati contestati i reati di lesa maestà, punito severamente col carcere fino a quindici anni, e di “violenza contro la regina“, le cui pene sono ancora più severe. Si tratta proprio di fattispecie criminali che i giovani chiedono al governo di abolire, perché di fatto impediscono ogni forma di contestazione.
In effetti, i giovani non puntano ad abbattere la monarchia, bensì a riformarla in maniera tale che non possa più nuocere alla Thailandia come negli ultimi anni, specialmente quando fornisce ai dittatori l’appoggio istituzionale necessario per governare. Una monarchia rivista, in cui il re possa tornare a essere solo un punto di riferimento identitario per la nazione, sarebbe un contesto accettabile per ottenere anche altri cambiamenti sociali, come la maggiore inclusione delle donne (il cui status è soffocato dal patriarcato soprattutto nelle aree più arretrate del Paese) e migliori opportunità di lavoro specialmente per la minoranza istruita, per cui paradossalmente è più difficile trovare un’occupazione.
Sono questi i caratteri della protesta che stanno pian piano cominciando a innalzare l’età media della piazza di Bangkok; nel frattempo aumenta sempre più il consenso dentro e fuori il territorio nazionale. Persino la Germania si è improvvisamente accorta che forse non è più il caso di ospitare sul proprio suolo un monarca straniero complice di un regime militare che opprime e impoverisce il proprio popolo.
L’esito della rivoluzione di Thailandia è ancora difficile da prevedere: senza un’adeguata eco internazionale il rischio che l’esercito possa blindare il Paese e condurre una repressione silenziosa e chirurgica è alto. Secondo alcune analisi, peraltro, una nuova instabilità nel contesto estremorientale sarebbe dannoso per gli interessi del grande capitale asiatico (e dunque occidentale) nell’area, a causa dello stato precario dei debiti sovrani locali. Questo non depone bene a favore di interventi internazionali a favore della piazza, inibiti dagli interessi del grande capitale finanziario in un contesto reso già difficile dalla pandemia.
L’eventualità da scongiurare, tenendo accesi i riflettori sulla Thailandia, è senz’altro quella di un nuovo colpo di Stato da parte dell’esercito, che annullerebbe le speranze dei manifestanti e azzererebbe il processo democratico che solo ora sta cominciando a costruirsi sulle spalle larghe dei giovani.
Ludovico Maremonti