Soggetto post-moderno, ritualità e atomizzazione in Perfect Days
Wim Wenders - "Perfect Days", 2023 (fonte: MUBI)

Perfect Days è l’ultimo dei ventiquattro lungometraggi del regista tedesco Wim Wenders, presentato al Festival di Cannes il 25 maggio 2023 dopo una lunga parentesi professionale del regista rivolta alla realizzazione di progetti documentaristici. Ed è proprio l’esperienza documentaristica, oltre alla filosofia zen, che esercita un influsso determinante sullo stile dell’ultima opera di Wenders, che predilige modalità espressive tipiche di un genere incentrato sulla rappresentazione cronachistica e tendenzialmente fedele della realtà rispetto a una vera e propria costruzione narrativa.

Si profila una grammatica registica tesa al distacco riflessivo, al focus sul particolare, al gusto descrittivo di una messa in scena simbolico-poetica di un quieto minimalismo esistenziale. Quindi, dal presunto abbandono del flusso diegetico, ne scaturisce uno sguardo sul mondo che apparentemente non persegue il mito dell’eccezionalismo narrativo bensì cerca solo di coinvolgere emotivamente la fruitrice e il fruitore focalizzandosi esclusivamente sulla singolarità del soggetto e sulla riproduzione della propria quotidianità.

Il film di Wim Wenders con protagonista l’attore giapponese Kôji Yakusho – premiato a Cannes con la Palma d’Oro per la sua magistrale interpretazione attoriale – è ambientato in Giappone, in una Tokyo ultra-moderna e dai ritmi frenetici, e racconta l’esistenza quotidiana di Hirayama, un uomo sensibile, gentile, schivo e solitario di mezza età che svolge con estrema abnegazione e meticolosità la professione di addetto alla pulizia dei bagni pubblici. Hirayama conduce una vita frugale scandita da una routine quotidiana inappuntabile: un vero rituale di tempi e di abitudini. Egli vive in un universo parallelo appartenente a una rarefatta dimensione spazio-temporale tendenzialmente retrotopica e sicuramente asincrona rispetto all’iper-contemporaneità delle individualità che attraversano i medesimi luoghi.

Elabora così una propria e intima poetica del vivere strenuamente conforme a una disposizione del bello che esperisce per sottrazione, con un affiancamento morbido e costante alla cura maniacale delle piante, alla letteratura tramite i romanzi di William Faulkner, Patricia Highsmith, Aya Koda, e alla musica con le note delle musicassette – ascoltate nel vetusto furgone Dahiatsu – di Lou Reed, The Velvet Underground, Patti Smith, The Animals, Rolling Stones, Nina Simone e altri artisti degli anni ’60 e ’70. Tutti questo, mentre le pochissime parole pronunciate emergono come tenui epifanie in virtù dell’assenza di relazioni sociali e sentimentali. Il soggetto del racconto di Wenders, pertanto, si auto-crea una sorta d’universo chiuso e auto-referenziale, laddove i piccoli gesti reiterati nello spazio-tempo cadenzano giornate pressoché immutabili, donando con ciò un senso all’esistenza individuale.

In tal modo il perpetuarsi delle giornaliere ritualità stabilizzano la vita di Hirayama che, a sua volta, solo così ritrova costantemente il proprio sé mediante la ripetizione attiva dell’uguale con delle lievissime sfumature cangianti in uno stato di ammirazione partecipe e di quieto appagamento. I riti quotidiani di Hirayama riflettono delle codificazioni simboliche dell’accasamento che rallentano e cristallizzano il tempo di vita, trasformando, di conseguenza, l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa e rendendo lo spazio-tempo abitabile, duraturo e sacro. Così Wim Wenders mediante un’intensiva ritualizzazione delle sequenze cinematografiche compatta il passato e il futuro in un presente vivo a dispetto della dilagante percezione seriale e della coartante smaniosa sovreccitazione per la novità.

Non a caso il perno narrativo di Perfect Days è l’espressione giapponese komorebi che significa «luce che filtra tra le foglie degli alberi»; ossia un fenomeno ottico che suscita inizialmente una sensazione abbagliante per via del contatto diretto tra occhi e raggi del sole, seguita dalla acquiescenza scaturita dal verde del fogliame e dai giochi di ombre che si creano sul suolo. Hirayama, difatti, ogni giorno in pausa pranzo scatta una foto con la sua fedele Olympus analogica alla luce che filtra dalla chioma di un albero del parco che quotidianamente muta. Metaforicamente ciò evoca la visione di un qualcosa di bello che fugacemente irradia la transitorietà dell’esistenza quotidiana e rinnova interiormente il soggetto: una silenziosa e avvolgente, seppur infinitesimale, condizione di magnificenza originatasi dalla semplicità e dall’impermanenza del circostante.

Riprendendo il filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer: «I riconoscimenti non sono una serie di incontri, ma riconoscere significa piuttosto: conoscere qualcosa per ciò che ci è già noto. E costituisce l’autentico processo dell’”accasamento” umano. […] Nel riconoscimento è implicito il fatto che ora si conosce più propriamente di quanto si potesse fare nella confusione momentanea del primo incontro. Il riconoscere vede il permanente nel fuggevole».

Dunque, in Perfect Days il regista tedesco cerca di trasporre, nonostante la palese drammaticità della sua pellicola, lo splendore dell’immanenza in antitesi al disgregante caos generale, da ciò traspare che il «giorno perfetto» sarebbe quello che consentirebbe al soggetto di cogliere – situandosi necessariamente nell’hic et nunc lo straordinario attraverso l’ordinario. Nel tempo tutto questo donerebbe al soggetto una condizione inedita che lo renderebbe non più subordinato alla domanda dell’Altro bensì alla volontà capace d’assumere il proprio desiderio, la propria vocazione esistenziale-spirituale.

Così il tempo del protagonista di Perfect Days semplicemente fluisce all’insegna di una serena solitudine, giorno dopo giorno, sogno dopo sogno, immagine dopo immagine nel solco del tentativo di vivere ogni attimo in un irripetibile frammento di esistenza. Si manifesta qui la considerevole influenza del regista giapponese Yasujirō Ozu e del buddhismo zen sulla sceneggiatura di Wim Wenders e di Takuma Takasaki; difatti, l’esistenza di Hirayama è totalmente affrancata dall’eterna spinta desiderante verso la trascendenza.

Soggetto
Wim Wenders
Il regista Wim Wenders

Pertanto, nel cuore del bio-capitalismo giapponese la frammentata esistenza del soggetto è del tutto fagocitata dal disumanizzante produttivismo, dalla bulimia consumistica, dalla martellante pornografia digitale del privato, dal disancoramento sociale e dalla devastazione degli ecosistemi umani e non-umani. Relativamente a ciò il modus vivendi di Hirayama si sostanzierebbe come alternativa rigenerativa e autenticamente umana, come forma universale di resistenza individuale in contrapposizione a una società capitalistica che, in quanto totalità, non produce solo l’estraniazione generalizzata ma anche la coscienza di questa medesima estraniazione da cui ne deriverebbe, di conseguenza, il radicale bisogno di liberazione dal paradigma del consumismo e dell’accumulazione e di superamento dell’immiserimento individuale.

Però, al netto del sofisticato ottimismo del regista Wim Wenders e della poeticizzante retorica delle piccole cose e della vita parca, sorge un dubbio politico-esistenziale: la malinconica parabola zen di Hirayama potrebbe essere soltanto una forma di esistenza oppressa dal lavoro, socialmente atomizzata ed estetizzata in un’eterna immutabile immediatezza del tempo presente, che, invero, ben s’integra nell’individualizzante e onnipervasivo sistema produttivo capitalistico.

Perfect Days di Wim Wenders: resistenza o alienazione del soggetto?

L’esistenza di Hirayama in Perfect Days potrebbe essere la lotta di un savio o di un pazzo contro il decadere, il perire e l’obliarsi delle cose, contro la resa incondizionata a un’esistenza monotona ineluttabilmente gravata dalla miseria, contrassegnata spesso da un’accettazione passiva dell’abiezione del divenire. La lotta di un corpo analogico tramite la sua presenza, la sua ciclicità e la sua tangibilità immaginifica oltre che materica contro i simulacri, le distorsioni e l’a-temporalità della globalizzazione e della digitalizzazione. Ciò rispecchierebbe un modo personale di stare al mondo, di scegliersi e di risignificare un mondo: il mondo di Hirayama è uno dei tanti possibili e compresenti.

A tal riguardo, scrive Byung-Chul Han ne La scomparsa dei riti: «I riti modellano i passaggi fondamentali della vita. Sono forme di chiusura, senza le quali scivoliamo attraverso: invecchiamo, quindi, senza diventare vecchi, oppure restiamo consumatori infantili che non diventano mai adulti. La discontinuità del tempo proprio cede il passo alla continuità della produzione e del consumo. I riti di passaggio, rites de passage, strutturano la vita come le stagioni. Chi varca una soglia conclude una fase della vita ed entra in una nuova. Le soglie, come passaggi, ritmano, articolano e raccontano proprio lo spazio e il tempo, rendono possibile una profonda esperienza dell’ordine. Sono le soglie, passaggi temporalmente intensi, che oggi vengono abbattuti a favore di una comunicazione e di una produzione accelerate, prive di fratture. […] Le soglie parlano. Le soglie trasformano. Oltre la soglia c’è l’Altro, l’Estraneo. Senza la fantasia della soglia, senza la magia della soglia, esiste solo l’inferno dell’Eguale. Il globale viene eretto mediante un inesorabile smantellamento delle soglie e dei passaggi».

Ciononostante, Hirayama non varca mai effettivamente la soglia dell’alterità e quelle stesse ritualità propedeutiche al suo temporaneo radicamento esistenziale comportano, al contempo, lo sradicamento infernale del soggetto privo d’una rete di rapporti reciproci intessuti di condivisione, di un senso di riconoscimento emotivo e d’appartenenza umano. In tal senso, gli altri sono la dimora originaria, sono ciò che protegge e risemantizza l’esistente, ciò mediante cui si giunge al molteplice, grazie a cui la terra può divenire per l’individuo veramente terra, il cielo divenire per davvero cielo.

Invece, Hirayama sorride, sorride e sorride ancora, ammirando bonariamente quel che accade, ma ciò non accade a lui – che della vita è mero osservatore defilato – accade agli altri mentre lui, prigioniero di abitudini e artefatti, per timore sta tristemente immobile sulla soglia nascondendo i propri tormenti e camuffando l’orrore sublime di una vita esangue adombrata da un profondo irrisolto e votata allo svolgimento di un bullshit job.

Il protagonista del film di Wim Wenders, in fondo, non lotta affatto per il miglioramento della propria condizione sociale, né per dichiarare il proprio sentimento alla donna che ama, a differenza di un personaggio analogo, ossia Paterson, protagonista nel film Paterson di Jim Jarmusch, che da autista di autobus e da poeta dilettante decide, supportato da una rete di affetti, di perseguire l’ambizione di pubblicare una raccolta di poesie.

Hirayama è una monade ed è, seppur ricco di famiglia, oberato da un lavoro idealizzato nel mentre cerca tra gioia e angoscia di rendere vivibile una vita alienante scelta deliberatamente in un contesto socio-economico caratterizzato dall’isolamento, dallo sfruttamento e dalla brutalizzazione dell’essere umano. Così, per una sorta d’eterogenesi dei fini, attraverso lo sguardo stucchevolmente nobilitante di Wim Wenders si comprende che la romanticizzazione dei lavori usuranti e sotto-pagati è un privilegio di classe.

E forse il frame finale mostratoci dal regista tedesco, più che un senso di gratificazione e felicità, infonde un senso di amara ma anche liberatoria consapevolezza, perché per quanto vero sia che «adesso è adesso e un’altra volta è un’altra volta», scorgendo l’espressione facciale di Hirayama con in sottofondo le note di Feeling Good di Nina Simone, emerge aspramente una verità non ricusabile: nessuno può salvarsi da sé.

Soggetto
Wim Wenders
La scena finale di “Perfect Days” (Indiecinema)

«Mi sento morire di solitudine, d’amore, di disperazione, di odio e di tutto quanto il mondo può darmi. Come se ogni cosa che vivo mi dilatasse al pari di un pallone pronto a scoppiare. Ci si espande interiormente sino alla follia, al di là di tutte le frontiere, ai margini della luce, là dove questa è strappata alla notte, e da tale eccesso di pienezza, come in un turbine selvaggio, si è scaraventati diritti nel niente. La vita crea la pienezza e il vuoto, l’esuberanza e la depressione; che cosa siamo davanti alla vertigine interiore che ci consuma fino all’assurdo? Sento la vita scricchiolare in me per l’eccesso di intensità, ma anche di squilibrio. È come un’esplosione incontrollabile, che può far saltare irrimediabilmente in aria anche te. All’estremo della vita senti che essa ti sfugge, che la soggettività è un’illusione, e che in te s’agitano forze di cui non sei responsabile, sottoposte a un dinamismo estraneo a ogni ritmo definito. Ai confini della vita c’è qualcosa che non sia occasione di morte? Si muore di tutto ciò che è come di tutto ciò che non è. Ogni esperienza diventa quindi un salto nel nulla». (E. M. Cioran).

Gianmario Sabini

Gianmario Sabini
Sono nato il 7 agosto del 1994 nelle lande desolate e umide del Vallo di Diano. Laureato in Filosofia alla Federico II di Napoli. Laureato in Scienze Filosofiche all'Alma Mater Studiorum di Bologna. Sono marxista-leninista, a volte nietzschiano-beniano, amo Egon Schiele, David Lynch, Breaking Bad, i Soprano, i King Crimson, i Pantera, gli Alice in Chains, i Tool, i Porcupine Tree, i Radiohead, i Deftones e i Kyuss. Detesto il moderatismo, il fanatismo, la catechesi del pacifismo, l'istituzionalismo, il moralismo, la spocchia dei/delle self-made man/woman, la tuttologia, l'indie italiano, Achille Lauro e Israele. Errabondo, scrivo articoli per LP e per Intersezionale, suono la batteria, bevo sovente per godere dell'oblio. Morirò.

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