Questo è un articolo di arte e storia, dove la cultura fa da giusta cornice ad una città dalle fondamenta preromaniche e dalla memoria antica. Senigallia torna nell’occhio del ciclone, prima dell’estivo X-master (Action Sports & Music Show) e dell’attesissimo Summer Jamboree (Festival Internazionale di musica e cultura americana degli anni ’40 e ’50). La Sant’Agata di Senigallia, nota opera del pittore Antonio Allegri da Correggio (tra i più grandi artisti del rinascimento italiano) ha inaugurato la stagione espositiva cittadina e la fotografia internazionale d’autore diventa protagonista a Palazzo Ducale con una mostra dedicata a Robert Doisneau.
«Ogni città ha un luogo segreto che riflette il suo cuore più antico e la sua anima più profonda. A Senigallia questo luogo è la fotografia. Una vocazione che viene da lontano, che ha a che fare con quella luce così particolare che la fece eleggere da Giuseppe Cavalli a centro in cui fondare la sua scuola del Misa e che incontra la straordinaria figura artistica del nostro concittadino Mario Giacomelli. In questa nostra città della fotografia approda oggi uno degli sguardi artistici più poetici e penetranti: quello di Robert Doisneau.»
Così Maurizio Mangialardi, sindaco di Senigallia, accoglie la mostra “Robert Doisneau: le Temps Retrouvé” allestita a Palazzo Ducale (che aveva precedentemente ospitato altri talenti quali Ara Güler e Leo Matiz) e aperta al pubblico dal 29 marzo al 2 settembre 2018. Un allestimento in collaborazione con la Fondazione Cassa Risparmio di Jesi, la galleria Ono Arte Contemporanea di Bologna e l’Atelier Doisneau di Parigi, che da sempre ha l’onere di preservare l’intera opera del fotografo francese.
Robert Doisneau (1912-1994), nato a Gentilly, fin da bambino conobbe i disagi e le sorprese della periferia sud di Parigi. A causa delle precarie condizioni della madre, malata di tubercolosi, per un breve periodo i due si trasferirono in un fiabesco castello nel villaggio di Mialaret, per respirare condizioni di vita migliori. Dove, grazie al supporto materno, Robert imparò a leggere e l’amore per i libri: filtri nobili e gentili per ogni volto della bellezza. Frequentando l’École Estienne, ottenne il diploma di incisore-litografo e, poco dopo, si accostò all’esercizio delle arti grafiche presso lo studio Ullmann, qualificato nel settore della pubblicità farmaceutica. Proprio durante quest’anni di giovinezza, Doisneau affinò la propria tecnica scattando innumerevoli fotografie con la macchinetta regalatagli dal fratellastro Lucien: protagonisti erano gli squarci di città, le strade di periferia, la gente comune, l’uomo e le sue fatiche. Otterrà l’ordine del suo primo reportage dallo zio, sindaco di Gentilly, e la Rolleiflex 6×6 sarà il meritato premio del primo stipendio. Il primo ad essere pubblicato resta, invece, il servizio dedicato al mercatino delle pulci comparso sul quotidiano “Excelsior”.
«Le mie foto piacciono alla gente perché ci riconoscono ciò che vedrebbero se non andassero sempre di corsa. Se si prendessero un po’ di tempo per assaporare questa città.»
La passione per l’obiettivo fotografico venne minata dall’anno prestato al servizio militare obbligatorio e, allo stesso tempo, incentivata dall’incarico di fotografo di fabbrica per la Renault a Billancourt accettato nel 1934. Se di giorno Doisneau era costretto a intrappolare in un scatto tutto ciò che quotidianamente (e meccanicamente) avveniva nella gabbia del capitalismo e dell’alienazione umana per eccellenza, di notte, quasi a ribellione per un grigiore estetico e spirituale imposto, era solito sperimentare nuove tecniche a colori. Intraprendenza che gli costò il posto. Intercorse la Seconda Guerra Mondiale e, di ritorno a Parigi nel 1940, sostenne la causa della Resistenza: proprio in questo fervente clima rivoluzionario, Doisneau conobbe Pierre Betz, editore della rivista “Le Point”, inaugurando così una proficua e lunga collaborazione. All’inizio degli anni ’50, il nome di Doisneau era ormai noto in contesto nazionale e internazionale. Nel 1947 vinse il Premio Kodak e nel 1956 espose in due grandi impianti newyorkesi: alla Photo League e al MoMA.
La fama ormai lo precede e la sua opera si consacra nell’immaginario collettivo: il fotografo della banlieue ha raggiunto la città senza mai dimenticare le sue origini; ha conosciuto tanti uomini influenti pur continuando a concentrarsi sullo scintillio furbo, impertinente ma onesto dei bambini; ha scritto la sua storia e il suo nome, suggellandoli con la traccia indissolubile di un bacio.
«La vita è breve. Rompi le regole. Perdona in fretta. Bacia lentamente. Ama veramente. Ridi incontrollabilmente e non pentirti di niente che ti abbia fatto sorridere.»
A pochi passi da Palazzo Ducale, presso le stanze di Palazzetto Baviera si trova l’esposizione dedicata al pittore Antonio Allegri da Correggio (1489-1534), accessibile fino al 2 settembre 2018. La mostra ha un antecedente, nel 1886, quando la tela venne esposta al pubblico dalla vedova del medico Angelo Zotti, Alexina Fucci, cosicché viaggiatori e amanti d’arte potessero ammirarla. Grazie all’Associazione “Amici del Correggio“, torna in città un’opera (data per persa) con l’inequivocabile titolo che ne conferma le origini e l’appartenenza, la “Sant’Agata di Senigallia“.
Il Correggio rientra tra i cinque pilastri del rinascimento italiano – Leonardo, Michelangelo, Raffaello e Tiziano – e lo stesso Guercino lo definì «maestro senza pari». Amante della santità e cultore del corpo femminile, riversava la sua ammirazione nei volti gentili e particolarmente espressivi delle sue giovani (dal sorriso nobile e leggermente accennato, dalle tonalità pastello e dai particolari illuminati risaltati, così, dal gioco d’ombre); dava prova del suo attento studio attraverso i dettagli riservati alle mani e ai loro gesti armoniosi. Un tratto sicuro e delicato. Invece, specchio del suo virtuosismo artistico sono, a volte, l’elaborate acconciature che destarono meraviglia persino nel noto pittore-biografo Giorgio Vasari.
La tela di Sant’Agata raffigura la martire catanese che, a soli sedici anni, scelse la strada della consacrazione a Dio. Erano i tempi dell’imperatore Decio e del governatore Quinziano, quando le persecuzioni contro i cristiani (iniziate nel 40 d.C. con Nerone) si erano intensificate. Fu torturata (le furono strappati via i seni con enormi tenaglie) dagli uomini di Quinziano, innamoratosi di lei: ordinò che fosse arsa viva ma un’improvvisa eruzione dell’Etna fece tentennare i disumani intenti e il popolo, credendolo un segno, chiese clemenza per lei. Quinziano accettò il volere del volgo ma Agata morì agonizzante in cella, per le ferite riportate. L’opera raffigura la giovane nell’atto di serena contemplazione dei suoi seni, in un rituale e raccolto contegno. Il manto rosso che indossa, secondo la tradizione, non bruciò, diventando così ricordo e reliquia della santa.
Nel 2004 la tavoletta di Sant’Agata è stata restaurata dall’abile mano di Pinin Brambilla Barcilon, la nota restauratrice che aveva già trattato il Cenacolo di Leonardo. Giuseppe Adani, curatore della mostra, spiega come «pittoricamente ne è stata condotta una pulitura generale con rimozione della vernice ingiallita, della sottostante patina bruna, e del particellato atmosferico. L’intervento ha poi comportato piccole integrazioni e una nuova leggera verniciatura per dare compattezza e lucentezza ai colori. Il volto ne è uscito con la sua morbidezza, mentre lo sfondo rimane ancora abbastanza consunto. […] è stata eseguita la prima radiografia che ha rivelato le figure della sottostante Crocifissione.»
Ma questa è un’altra storia.
Pamela Valerio