Nei giorni 13, 14 e 15 novembre, al teatro Nostos (Aversa, Napoli) ha avuto luogo Strange Games, uno spettacolo metafisico, che non necessita di parole.
Forte è il peso della tradizione di Chaplin e del buon vecchio Totò in una serata catartica ed evocativa, che col riso ha comunicato messaggi fin troppo forti, affrontati con una semplicità e una leggerezza che sarebbero potute appartenere ad un innocente bambino.
Ma forse erano proprio loro a recitare, i bambini che risiedono ancora negli animi di Carlo Decio, Yury Olshansky e del fratello Vladimir, guest artist col celeberrimo Cirque du Soleil.
“Il nostro spettacolo pone le sue radici dalla pantomima classica.
Ci stiamo esibendo in Italia, soprattutto a Napoli e qui ad Aversa. Il teatro Nostos è un po’ come casa nostra, ma dovremmo lasciarlo per raggiungere Spoleto, a Milano, poi si proseguirà per tutto il mondo. Questa collaborazione è nata a Parigi, e dalla nostra terra vorremmo far arrivare a tutti il nostro linguaggio fatto di poesia e di metafora. Le nostre sono davvero Strane Storie, spero solo che tutti abbiamo compreso i nostri messaggi.”
Così Vladimir ci descrive il suo lavoro, con una passione che gli balenava negli occhi, con una curiosità che lo spingeva a chiederci continuamente se davvero, quei 10 minuti di applauso finale, erano sentiti.
Prende poi parola Yury Olshansky:
“Siamo attori visuali, abbiamo preso il teatro mimico e l’arte drammatica, li abbiamo spogliati dei loro cliché. Oggi il teatro contemporaneo fa questo, prende tutto, tante cose, tanti ingredienti e cerca di armonizzarli tra loro. Noi proviamo a trasgredire.
L’importante è basarsi su ciò che accade davvero. Si inizia da un’analisi diretta che poi sfocia nel nostro lavoro di attori, attori che dovrebbero incarnare i topos di una società. Non è semplice, ogni volta che sto per salire sul palco spero sempre di esserne all’altezza, per quanto possibile.
Oggi il teatro ha perso le sue radici. Il pubblico e anche gli attori stessi guardano un clown e pensano al Mc Donald. Questo è tristissimo. Il clown non fa ridere, ha una cultura teatrale e una tradizione alle spalle molto più ricca e dignitosa.”
Si tratta quindi di uno spettacolo visuale, diviso in sketch, ognuno con la sua tematica riguardante una piaga della società attuale.
Così due operai stanchi dopo una lunga giornata di lavoro, forse un po’ imbranati o non accuratamente indirizzati alle proprie mansioni, perdono la vita.
Un uomo non riesce a dormire per via di un ululato. Si gira e si rigira, si alza, apre la finestra, urla contro il mondo e tutto si placa.
Ora c’è troppo silenzio, è troppo solo per riuscire a chiudere occhio. Si gira e si rigira, accende la radio, la spegne. Si alza, apre la finestra e richiama coloro che aveva zittito.
Le morti bianche e la forza della solitudine sono i temi che aprono il sipario, destinati ad avere un andamento ciclico, collegati tra loro da un forte climax ascendente.
Nel terzo sketch un uomo entra in una stanza e ne resta prigioniero. Per la sala riecheggiano frastornanti le frasi metalliche “Vietato entrare” e “Vietato uscire” ogni qualvolta che il mimo sfiora le due porte che lo tengono in trappola.
Gli anni passano, ormai è invecchiato; decide di ribellarsi agli ordini che gli sono stati dati e apre la porta d’uscita con tutta la sua forza.
Una luce lo investe, finalmente è felice ma è troppo tardi. È ormai alla fine della sua vita e non può godere di quell’attimo rammaricandosi di aver perso la sua esistenza nell’inettitudine e nell’oscurità.
La scena mimica si fa quindi metateatro: le pareti che ci soffocano in vita sono davvero invisibili e noi non dobbiamo far altro che reagire. Si ripercorre il tema Kafkiano dell’inettitudine, dell’uomo che attende la sua sorte fingendo di reagire nascondendosi dietro gli altri e dietro ciò che è stato stabilito come legge o ordine.
“L’uomo ha paura della vita, non c’è entrata né uscita perché la società non fa uscire. Ha paura di lasciare la sua anima volare. Ma alla fine è sempre troppo tardi, poteva fare tutto, ma non fa mai nulla.” Ci spiega Yury.
Il tema successivo è quello della musica intesa come l’arte per eccellenza.
“Il male riesce a distruggere tutto ciò che tocca, anche le cose belle come la musica. Abbiamo rappresentato un demone in nero che con un pugnale taglia l’aria, quell’aria in cui si diffonde la musica di una radio. Il demone uccide la musa, uccide tutto.” spiega Carlo Decio.
Il tema successivo sembra ricalcare quell’amicizia che Excuperie ne “Il Piccolo Principe” definisce “addomesticamento”.
Al posto della volpe qui c’è un cigno che forse, al suo compagno farà per sempre ricordare il colore del cielo.
Iniziano poi le parodie sull’esercito e sulla guerra, più uomini si uccidono più il generale accumula medaglia, diventa importante, rinomato, sale addirittura in politica. Ma i politici sono vigliacchi e incompetenti, distruggono il mondo e si nascondono dietro la loro ignoranza.
Scoppia una guerra e gli angeli iniziano a piangere.
Lo spettacolo si chiude con l’ultimo step di quel sentimento di solitudine e frustrazione prima descritti.
Due lavoratori giocano come bambini con un cappio, un uomo cerca di suicidarsi ma viene più volte fermato da un qualcosa di così semplice.. un banalissimo “Ehi, come sta?”
E così conclude Vladimir Olshansky: apre la finestra immaginaria che affaccia al pubblico e ci chiede, finalmente con le parole “Ehi, e voi? Come state?”
“Da francesi volevamo dedicare una parte dello spettacolo alla tragedia che ci ha colpiti, ma poi abbiamo pensato che era meglio di no. Noi facciamo arte con spettacoli visivi e mimici, nei nostri corti abbiamo affrontato i temi della violenza e della guerra, spendere altro non sarebbe stato appropriato. Non dobbiamo fare in modo che la tristezza ci uccida, che i terroristi rubino anche il nostro essere. Noi stasera abbiamo portato arte e riflessione, quello che aiuta a sconfiggere ogni forma di brutalità”.
Conclude così Yury Olshansky, con gli occhi lucidi.
Alessia Sicuro