È martedì mattina quando ricevo il mio “battesimo” del carcere, una tappa obbligatoria per chi intraprende la pratica forense in ambito penale.
In realtà, nei mesi scorsi, ero già stato al carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, ma credo sia offensivo per l’intelligenza del lettore dilungarmi sui motivi per i quali tale realtà non possa essere in alcun modo paragonata a qualsivoglia carcere per civili, men che meno a Poggioreale.
Il cielo è terso, il sole tiepido e un venticello fresco rende la temperatura gradevole. «Avvocato, quanto tempo ci vorrà per poter entrare a colloquio con il detenuto?», chiedo quasi sottovoce al mio dominus. «Almeno un’oretta, non abbiamo prenotato», mi risponde lapidario. Man mano che mi avvicino alle alte mura di cinta del carcere di Poggioreale il fiato si fa più corto, come se d’improvviso fossi assalito da un attacco di claustrofobia.
Sono a pochi passi dalla piccolissima porta d’entrata del carcere e, prima di lasciarmi alle spalle il caos della strada, respiro a pieni polmoni e mi catapulto nell’apnea di procedure e formalità che precedono un qualsiasi colloquio a Poggioreale. Non so di preciso cosa attendermi, ma sono pronto al peggio. Una volta passato il primo controllo con nastro e metal detector, si varca una enorme porta d’acciaio con vetri blindati e si arriva al secondo controllo, dove vengono ritirati i tesserini dell’ordine e vengono rilasciati dei pass.
È lì che al malessere per quegli spazi tetri e sigillati, in cui l’ambiente esterno non lo riesci neanche a percepire, si aggiunge il nervosismo causato dall’incontro con l’idiozia della burocrazia. Sono lì col mio dominus, regolarmente nominato dal nostro assistito, ma non posso entrare perché non ho un foglio rilasciato dal consiglio dell’ordine che attesti che quello è davvero l’avvocato presso cui svolgo la pratica. Quando obietto di poter far autocertificare questo dato dal dominus presente in carne e ossa, il secondino mi squadra da capo a piedi come fossi un marziano, prima di lasciarmi salire nella segreteria detenuti a firmare un po’ di scartoffie. Uno a zero per il buonsenso, riesco a passare.
Il tempo nel carcere di Poggioreale si è fermato, a voler essere generosi, al secondo dopoguerra. La lista dei praticanti ammessi ad entrare a colloquio è rappresentato da un polveroso librone scritto a mano dai secondini di guardia, per cui consegno l’autocertificazione con tutti i dati che vengono trascritti su questo registro. Quando finalmente arriviamo nella sala d’attesa degli avvocati, mi rendo conto che qualsiasi manifestazione di umanità si è fermata alle soglie del muro di cinta, senza mai varcarlo.
Ciò che c’è fuori da lì, una volta dentro, non è minimamente percepibile. Il senso di smarrimento è totale, non si capisce dove si trovino i padiglioni ma, come alle porte dell’inferno dantesco, si avvertono solo grida feroci che si levano, di tanto in tanto, da qualche punto non ben definito del carcere. Non si riesce a capire nemmeno cosa urlino quelle voci. Potrebbero essere tanto detenuti quanto secondini. Giro lo sguardo e passo in rassegna i volti di tutti gli altri avvocati in attesa ma, a quanto pare, sono l’unico ad avvertire con disagio quelle urla. L’abbrutimento sembra essere la regola a Poggioreale e neanche i legali ne sono immuni, anzi. Molti appaiono a loro agio nel riferirsi ai detenuti con termini più consoni ad indicare bestie anziché uomini.
«Secondino, questo qua me lo porti alle 11:00»; «Questo me lo prepari tra mezz’ora, poi me ne scappo ché non tengo tempo da perdere»; «Se passo tra un’ora me lo sali sopra?». Sono solo alcune delle frasi ascoltate in un’ora di attesa in carcere, a dimostrazione che la degradazione da persone a cose dei detenuti di Poggioreale è lampante sin dalla dialettica. Solo qualche giorno prima c’era stato l’ennesimo suicidio in cella. Il legislatore, impegnato a prendere decisioni sull’onda emotiva del momento, ha concepito un sistema carcerario che, oltre a tenere pochissimo in considerazione la funzione rieducativa del carcere, risulta essere incoerente e umorale. Adesso si parla di affettività garantita ai detenuti, ma le maglie del sistema sono pronte a restringersi non appena qualche altro caso di cronaca giudiziaria farà dimenticare la condizione pietosa delle carceri italiane.
Finalmente ci apprestiamo a fare il colloquio, il secondino ci autorizza a farci firmare una nomina. Trascorriamo con G.S. appena una decina di minuti e poi lo salutiamo, sperando di essere forieri di buone notizie al prossimo incontro. Mi lascio il carcere di Poggioreale alle spalle, ma la sensazione di malessere che quel posto ti scaraventa addosso me la trascino dietro per l’intera giornata.
Niente a Poggioreale sembra poter minimamente essere accostato al concetto di umanità. Chi sconta una pena in quella Casa Circondariale, in molti casi, subisce la punizione ulteriore della condanna a vita alla marginalità. Nessuno, senza il tentativo di inclusione sociale, può uscire migliorato da quel contesto tetro, disumano e brutale. Ne sono uscito peggiorato persino io, dopo appena novanta minuti trascorsi ben lontano da celle e padiglioni.
La normalizzazione della barbarie è la risposta vendicativa dello Stato nei confronti di chi delinque, salvo scontrarsi con un tasso di recidiva molto più alto rispetto agli altri paesi europei. Eppure, in tempi di populismo anche in ambito penale, questa sembra essere l’unica risposta che siamo in grado di dare, con buona pace del principio di umanità della pena, morto e sepolto in qualche angolo dimenticato di Poggioreale, nel silenzio complice di molti avvocati.
Mario Sica