Il 24 luglio scorso, com’è noto, è apparso sulle pagine di Repubblica un articolo dal titolo “Sul treno per Foggia con i giovani Lanzichenecchi” firmato da Alain Elkann, al quale è seguita la consueta polarizzazione mediatica fra chi si è detto «deliziato per lo snobismo di Elkann» e chi ha mosso aspre critiche al contenuto profondamente classista dello scritto. Alain Elkann ha voluto donare al pubblico di Repubblica – parte del gruppo Gedi, di cui è presidente il figliol prodigo John – una raffinata e sagace indagine etnografica inerente il proprio viaggio sul treno Roma-Foggia e le relative peripezie che affliggono un notabile passeggero-antropologo in prima classe intento a leggere la recherche di Proust e il Financial Times.
Gli adolescenti, con le loro magliette bianche e i cappellini di tela, che ascoltano musica dal proprio cellulare e discutono animosamente di calcio e di «beccare le ragazze in spiaggia», vengono presentati da Elkann, con una ricercatezza lessicale senza eguali, con genuino candore e fanciullesco stupore, al fine di avvertire i propri simili e, grazie al suo altruismo, salvarli da esperienze del genere. Infatti, quei «giovani lanzichenecchi senza nome» sono una piaga dell’attuale società agli occhi dell’extraterrestre Elkann imbevuto di disprezzo di classe.
Ben presto persino il Comitato di redazione ha preso le distanze dalla scelta del direttore Maurizio Molinari di pubblicare un articolo «ben lontano dalla missione storica che si è data Repubblica, missione confermata anche nel nuovo piano editoriale dove si parla di un giornale “identitario” vicino ai diritti dei più deboli». Eppure, proprio la scelta di far vedere la luce a un simile scritto – come sottolineato da Jacobin – risulta essere «involontariamente radicale», perché «niente mostra meglio la profonda divisione in classi della società delle parole sincere di chi fa parte dell’1% più ricco». Scelta che, inoltre, pone moltissimi interrogativi sulla reale indipendenza – necessaria nella ricerca della verità propria del giornalismo – della stampa italiana mainstream, nel momento in cui i suoi contenuti, sovente, sono nient’altro che mera espressione dei gruppi dirigenti di turno. Il concetto gramsciano di egemonia culturale ben si adatta alle strategie del gruppo Gedi, in quanto non vi è modo migliore per consolidare e preservare il potere di una lobby che detenere, oltre ai mezzi di produzione economici, anche i mezzi di comunicazione e di produzione intellettuale, il che consente la naturalizzazione della visione del mondo propria della classe dominante.
Le idee dominanti non sono altro che il riflesso dei rapporti di forza in essere.
Il potere economico e il potere simbolico-sociale generano sottomissione e conformismo, fondando un’unica e determinata narrazione della realtà tesa all’oggettivazione dello status quo. Riprendendo il filosofo Antonio Gramsci: «Le classi subalterne sono tali perché non hanno il potere di auto-rappresentarsi di fronte al divenire della storia». Da ciò ne deriva il formarsi tra gli strati sociali oppressi e sfruttati di una falsa coscienza che legittima il potere della classe dominante, sia mediante un assorbimento passivo delle idee e dei valori di questa classe, sia attraverso un’attiva adozione delle stesse.
L’istituirsi di determinate norme socio-culturali fa sì che il sistema esistente possa fronteggiare le proprie contraddizioni, adattarsi, ristrutturarsi e sopravvivere. La realtà che ne scaturisce, quindi, è ideologicamente mediata e rappresenta la forma più alta d’ideologia poiché si presenta come dato empirico, come necessità biologico-naturale e socio-economica, e si tende, in virtù di ciò, a percepirla come non ideologica. La legittimazione e il trionfo dell’ideologia totalizzante degli Elkann et similia è tanto più radicale in quanto crea una percezione normalizzata delle iniquità e delle gerarchie sociali, una percezione che non si presenta come specifica ragione economica, bensì come la natura stessa del mondo, come l’essenza immutabile di una umanità eternamente divisa in classi.
Alain Elkann: in difesa della classe e del privilegio
I non affatto umili natali di Elkann sembrano recare in sé le chiavi per le porte della percezione a cui solo a un marziano o a un prescelto è concordato l’accesso, mentre gli altri passeggeri – la maggioranza, uno nessuno e centomila – non possono che godere del dono frutto del suo incommensurabile acume: metafora involontaria di una sorta di segregazione di classe. Infatti, il reportage di Elkann è soltanto un’inconsapevole auto-rappresentazione di classe che sancisce una incolmabile distanza fra sé e i barbarici altri. Trasposizione di quel confine invalicabile fra gli esponenti del capitalismo finanziario – l’1% della popolazione globale – e i lanzichenecchi, ossia il restante 99%.
Alain Elkann non è nient’altro che il sotto-prodotto culturale dell’endogamico e parassitario nano-capitalismo italiano.
Figlio di ricchi banchieri francesi e torinesi, s’unisce in matrimonio con Margherita Agnelli, figlia del Presidente della Fiat Gianni; ha tre figli: Ginevra (regista cinematografica), Lapo (molto seguito dalle cronache scandalistiche dei giornali italiani) e John (il nipotino prediletto, a cui il nonno Gianni ha affidato le aziende di famiglia tra cui Stellantis, erede della Fiat, il club calcistico Juventus e, per l’appunto, Gedi, gruppo editoriale di Repubblica).
Ciononostante, i dominanti tendono a incarnare l’ideologia meritocratica che comporta il conferimento di un merito individuale per la propria superiorità sociale, e tentano di imporla all’intero corpo sociale basandosi sul distorcente assunto secondo cui le condizioni socio-economiche siano analoghe per chiunque. Di conseguenza, il mantenimento dei propri privilegi consiste nell’attribuire ai membri delle classi subalterne la responsabilità individuale per la propria miseria: così essere poveri diviene una colpa originata da mancanze culturali o di spirito d’iniziativa.
Centrale è il ruolo degli stereotipi e dei pregiudizi mediante cui si propaga la concezione per cui le persone povere sarebbero tali perché non intraprendenti e dotate come le persone ricche, giustificando con ciò i privilegi di alcuni e le deprivazioni materiali di altri, che finiscono per generare anche svantaggi psico-sociali.
I gruppi subalterni accettano spesso acriticamente le iniquità sociali e i paradigmi predatori, interiorizzandone le logiche mistificatorie al punto d’essere spinti a difendere, sostenere e giustificare lo stato di cose esistente, percepito come legittimo, nonostante li danneggi e li marginalizzi. Scrive la psicologa Chiara Volpato: «Le credenze legittimanti sono quindi strumenti essenziali per la costruzione e il mantenimento delle gerarchie sociali e, quindi, delle disuguaglianze. Esse forniscono le giustificazioni della superiorità di alcuni e della subalternità di altri, invocando quadri ideologici diversi a seconda della cultura e del periodo storico, con l’obiettivo comune di rafforzare il sistema».
Tali processi occultano di fatto la vera natura delle disuguaglianze e producono un rapporto di fascinazione e sudditanza nei confronti dell’autorità, dell’élite. Questa forma di servitù volontaria determina uno stato in cui il soggetto si sottomette volontariamente, diviene fautore della propria servitù e rifiuta la propria auto-emancipazione. La feticizzazione mediatica e imprenditoriale del modello capitalista, di cui Alain Elkann è la plastica rappresentazione, rimarca la rilevanza del capitale simbolico e culturale, ossia la proprietà occulta che un oggetto o una persona possiedono «naturalmente».
Secondo il sociologo Pierre Bourdieu «l’appartenenza di classe indica il grado in cui una persona beneficia delle risorse sociali, è correlata a un ampio insieme di esperienze di vita, influenza ciò che si impara, si crede, si desidera». Inoltre, afferma che «la cultura costituisce uno dei principali meccanismi di riproduzione delle strutture di classe».
Il capitale simbolico diviene un elemento di colonizzazione dell’immaginario connesso alla struttura societaria asimmetrica e all’istituzionalizzazione di rapporti sociali mercificanti ed estrattivisti. Infatti, perno dell’analisi di Bourdieu è l’habitus, «che fa capire il processo attraverso il quale gli attori sociali interiorizzano le condizioni materiali nelle quali si trovano a vivere». Questo è costituito, per esempio, dalla scelta degli abiti, della gestualità, dalle letture e più in generale dall’educazione, tutti elementi centrali nello scritto di Elkann. Al contempo, però, ricchi e poveri, dominanti e dominati, concorrono al mantenimento della disuguaglianza immaginando un fittizio destino comune.
Il capitalismo rinnega e detesta la working class, ma non può del tutto liberarsene, altrimenti collasserebbe. L’arroganza di classe di Alain Elkann è possibile proprio grazie all’esistenza di quei lanzichenecchi senza nome – dal tedesco «servi del paese» – che disprezza e che, al contempo, gli assicurano il perpetuarsi dei suoi privilegi e la pubblicazione dei suoi classisti e mediocri resoconti. Però, forse, il risentimento e il terrore di Elkann sono il sintomo di un capitalismo che si auto-analizza e intravede il proprio tramonto, perché, alla fine, quei servi potrebbero ben comprendere che, come ha scritto Karl Marx, «la maggior parte dei sudditi crede di essere tale perché il re è il Re, non si rende conto che in realtà è il re che è Re perché essi sono sudditi».
Celeste Ferrigno