«Bisogna restaurare l’odio di classe. Perché loro ci odiano, dobbiamo ricambiare. Loro sono i capitalisti, noi siamo i proletari del mondo d’oggi: non più gli operai di Marx o i contadini di Mao, ma “tutti coloro che lavorano per un capitalista, chi in qualche modo sta dove c’è un capitalista che sfrutta il suo lavoro”. A me sta a cuore un punto. Vedo che oggi si rinuncia a parlare di proletariato. Credo invece che non c’è nulla da vergognarsi a riproporre la questione. È il segreto di pulcinella: il proletariato esiste. È un male che la coscienza di classe sia lasciata alla destra mentre la sinistra via via si sproletarizza. Bisogna invece restaurare l’odio di classe, perché loro ci odiano e noi dobbiamo ricambiare. Loro fanno la lotta di classe, perché chi lavora non deve farla proprio in una fase in cui la merce dell’uomo è la più deprezzata e svenduta in assoluto? Recuperare la coscienza di una classe del proletariato di oggi, è essenziale. È importante riaffermare l’esistenza del proletariato. Oggi i proletari sono pure gli ingegneri, i laureati, i lavoratori precari, i pensionati. Poi c’è il sottoproletariato, che ha problemi di sopravvivenza e al quale la destra propone con successo un libro dei sogni». (Edoardo Sanguineti).
L’odio è un elemento costitutivo dell’umanità, è un sentimento che compone parte della singolarità d’ogni essere vivente. Naturalmente ciò non presuppone alcuna a-storica verità antropologica, semplicemente l’assunto di base, lungo la travagliata storia umana, è che l’odio, in particolar modo da parte delle oppresse e degli oppressi, è quasi inevitabile. L’odio esiste certamente in determinati contesti socio-culturali che sistematicamente pongono con ferocia gli individui l’uno contro l’altro, sia in termini individuali che gruppali. Non c’è alcuna garanzia in merito alla direzione di tale odio, ovviamente. Può essere esternalizzato, spesso senza tendere ad alcun principio di giustizia sociale oppure può essere introiettato, nell’esiziale odio per il proprio sé; non a caso quest’ultima modalità, in un regime capitalistico, è terribilmente diffusa e alimentata dal sistema medesimo. Cionondimeno, è indubbiamente infruttuoso sia ignorare, sia stigmatizzare e sia patologizzare l’odio di per sé, fintantoché è necessario che si manifesti in relazione a dati rapporti di produzione e riproduzione dell’esistenza personale e politico-sociale.
A tal proposito, l’odio con connotazioni di classe non è affatto considerato benefico, necessario o appropriato in seno alla cosiddetta società liberal-democratica, eppure si manifestano continuamente innumerevoli e ributtanti episodi d’istituzionalizzazione e pornografia d’una violenza barbarica: atomizzazione e darwinismo sociale, insanabili disuguaglianze in ambito socio-sanitario, razzismo, dilaniante performatività aziendale, precarietà in quanto condizione esistenziale, sanguinose repressioni poliziesche, costanti torture e sovraffollamento nelle carceri, sessismo, discriminazioni di genere e bio-politiche etero-cis-patriarcali, nauseante voyeurismo mass-mediatico, guerre imperialistiche, debitocrazia, metodica devastazione degli ecosistemi in nome del profitto e via discorrendo.
Ciononostante, per i conservatori, i liberali e i socialisti riformisti, in egual misura, l’odio – se non per fini elettorali e di governamentalità – in quanto tale è assolutamente da rigettare e debellare in nome d’un presunto benessere generalizzato e della beatificata “pace sociale”. Tuttavia, la dominante e mistificante ideologia anti-odio non contempla minimamente la possibilità d’individuazione delle cause profonde e dei punti di produzione di siffatto sentimento umano, né affronta l’inesorabilità o l’esigenza dell’odio in una società di classe. Piuttosto l’onnipervasiva politica capitalistica è estremamente repressiva e punitiva nonostante il più delle volte, per l’appunto, ufficialmente sconfessi e contrasti la sua intrinseca violenza, altresì è palese che tali tecniche di sadismo e di disciplinamento siano funzionali alla sua stessa sopravvivenza. A tal riguardo, scrive Nancy Fraser: «[…] il vortice dello “sviluppo” capitalista può solo generare forze liberiste e controforze autoritarie che coesistono in perfetta simbiosi. Così, lungi dall’essere un antidoto al fascismo, il (neo)liberismo è il suo complice».
Infatti, le molteplici strutture politico-finanziarie, con le relative governance, che propugnano e celebrano tale modello proteiforme e feticizzato, in quanto eterno e naturale, s’auto-descrivono come razionali ed eque. Cosicché propagano e instillano forme di felicità fittizia e autoritaria, di godimento coatto e fagocitante, dunque, una vera e propria martellante, ansiogena e intimidatoria propaganda sul dover essere positivi. È palese che siffatta positività coercitiva e mercificante non solo tende a colpevolizzare il soggetto di prestazione in caso di fallimento, bensì incarna un modo surrettizio per codificare un’algebra dei bisogni e per normalizzare le dilaganti miserie che vengono sistematicamente generate e, pertanto, ne rappresenta sintomaticamente l’elemento co-costitutivo.
Sicché, in un’epoca apocalittica e intollerabile per gran parte degli individui, in cui viene invisibilizzato o, peggio, patologizzato l’odio radicale e collettivo e in cui viene fomentato, invece, l’individualismo sfrenato, il reazionarismo e lo sciovinismo; l’utilizzo strategico d’un odio deliberato come categoria razionale non è necessariamente un fattore avverso rispetto alla liberazione, all’emancipazione dallo sfruttamento e dall’oppressione.
Questo è un sistema che, più di qualunque altra cosa, merita un odio implacabile per le sue molteplici e crescenti disumanità. Odio di classe. Odio da parte di una determinata forza sociale in netto contrasto rispetto a un’altra classe dominante, sfruttatrice, oppressiva, discriminatoria e anti-ecologica. Beninteso, non un odio personale, psicologico o patologico, bensì un odio strutturale, radicale per ciò che il mondo è divenuto e per riappropriarsi d’un futuro, al momento, inimmaginabile.
Il capitalismo odia tuttə: dittatura del capitale o rivoluzione
L’odio per sua stessa natura desidera che l’elemento verso cui è diretto s’annichilisca, da ciò ne scaturisce una constatazione bifida: il capitalismo rinnega e detesta visceralmente la working class però, al contempo, non può del tutto liberarsene altrimenti collasserebbe; invece, la working class, affinché possa superare la propria condizione di miseria e sottomissione, dovrebbe sradicare sia il dominio parassitario della classe borghese sia il soggiogante capitalismo ch’è un macigno sulle membra dell’umanità, che fagocita insaziabilmente il suo stesso tempo di vita.
Sarebbe più che necessario odiare questo sistema di brutalità, di odio individualizzato, di monodimensionalità esistenziale, d’immiserimento dell’immaginario e di assolutizzazione dell’ontologia e della temporalità padronale, che esaurisce, aliena e uccide, che asfissia la portata rivoluzionaria dell’eros, che ostacola le pratiche non monetizzabili di cura di sé e dell’altro, che annichilisce qualsivoglia istanza realmente democratica e dissenziente, che stronca la configurazione di discorsi e di spazi di condivisione e di contro-potere, che neutralizza la proliferazione delle differenzialità autonome ed eversive, che, infine, sancisce il tetro realismo della sopravvivenza della nuda vita, del bulimico consumismo e della concorrenzialità inumana.
Inevitabilmente, dunque, il capitale – conformemente all’auto-perpetuantesi ciclo d’estrazione e di accumulazione – deve esorcizzare la possibilità di sradicamento e combatte inesausto la rivoluzione e, una volta sventata, dirige una guerra spietata contro le vinte e i vinti. Cosicché nell’eterno ritorno del suo attacco, nel suo rapporto fantasmatico e surrettizio rispetto alle soggettività assoggettate e inglobate, sfrutta le agitazioni non troppo incisive della working class come vettorialità favorevole, come spinta cinetica propedeutica alla propria ricorrente innovazione.
La società del capitale sussiste e si rivitalizza non malgrado gli antagonismi, bensì mediante essi. Più si paventa o si scommette sulla sua estinzione, maggiore, in realtà, è la capacità del capitale medesimo di riarticolarsi attraverso le forme d’appropriazione ed espansione epidemica degli orizzonti di colonizzazione. Pertanto, è necessario l’estendersi delle crisi economico-sociali in quanto strumento reticolare d’aggressione verso forme sovversive di massificazione rivoluzionaria oltre che come rigenerazione dell’organismo capitalistico nella rideterminazione dell’egemonia sull’eccedenza produttiva e sul processo computazionale e d’autovalorizzazione.
Il preservamento dello status quo è imprescindibile: sfruttamento del lavoro produttivo, del lavoro riproduttivo, del lavoro cognitivo e delle risorse extra-umane, sorveglianza e controllo algoritmico, apartheid sociale, privatizzazione del welfare state, drenaggio della ricchezza pubblica ad appannaggio del sistema finanziario, consequenziale e vertiginosa crescita dei debiti d’intere comunità e degli stessi individui già gravati dal ricatto salariale. Così nel suo incontrastato avanzare la macchina bellica del capitale subordina a sé gli elementi sociali e le macchine tecniche, in virtù di paradigmi predatori e di determinati rapporti di forza viene scientemente colonizzato e serializzato lo spazio-tempo esistenziale e vengono, altresì, frantumate, parcellizzate le soggettività umane, riducendole, per l’appunto, in una sempiterna e dissimulata schiavitù.
«Quelli che portano via la carne dalle tavole insegnano ad accontentarsi. Coloro ai quali il dono è destinato esigono spirito di sacrificio. I ben pasciuti parlano agli affamati dei grandi tempi che verranno. Quelli che portano all’abisso la nazione affermano che governare è troppo difficile per l’uomo qualsiasi». (B. Brecht, Odio di classe).
La macchina Stato-capitale tutela e consolida così la supremazia della finanza e dell’autoritarismo, la cui raison d’être è la guerra permanente di classe, di etnie, di genere, di sesso, tra i monopoli e tra gli Stati stessi. Sulla base della dittatura dell’eternità necessaria del capitale s’instaura una irrefrenabile spirale di fascistizzazione che riproduce e norma il costante soggiogamento di saperi, di corpi e d’identità: una fabbricazione, manipolazione e burocratizzazione d’individualità, d’interrelazioni, di mondi e di verità in quanto dispositivi di dominio tesi alla stabilizzazione di un’oggettività aprioristica e d’una massificazione omogeneizzante, atrofizzante e necrotizzante.
Infatti, dalla sussunzione totale della vita umana e planetaria, da tale assoggettamento e disciplinamento reiterato germogliano i semi dell’insorgenza, del sabotaggio politico-simbolico, della destituzione dell’apparato capitalistico. Si slatentizza così l’urgenza d’un lavoro politico di disarticolazione di un modello performativo destinato alla ripetibilità infinita e di costruzione d’una dimensione conflittuale di ri-soggettivazione individuale e collettiva anziché far sì che dilaghi un catastrofismo teologico-schizoide. Dalla marginalità prorompe, perciò, la possibilità tangibile di dipanare una tessitura moltitudinaria e sovversiva che deve necessariamente, a sua volta, dispiegare differenti processi di significazione, immaginare una contro-società, ridefinire uno spazio-tempo altro e culminare nella convulsione dei rapporti di bio-potere al fine d’una riconversione in potenza immanente di classe.
Al netto della catechesi del pacifismo, che in un regime capitalistico rimane una mera utopia piccolo-borghese, riprendendo Marx: «La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una nuova società». Sicché, un ardente odio di classe verso gli oppressori e i dominatori, verso un ordine di cose che pone la working class in una posizione di subalternità, che la degrada a mero automa del produttivismo, può essere prodromico all’agire politico organizzato, allo sviluppo d’una coscienza di classe e a una dinamica di rottura materiale, concettuale, epocale.
La rivoluzione è il solo modo per interrompere il più grande suicidio collettivo nella storia dell’umanità, è il freno d’emergenza d’un genere umano anestetizzato e in viaggio su un treno ad altissima velocità che sta deragliando verso l’abisso, parafrasando Walter Benjamin. Dunque, bisogna odiare il capitalismo per il bene dell’umanità, facendo così migrare la paura, l’angoscia nell’animo dell’avversario di classe; naturalmente siffatto odio di classe è connaturato al coagularsi e allo sprigionarsi di energie creative e trasformative, alla grammatica della rivoluzione, alla solidarietà, al pluralismo, all’impulso per la libertà umana e non-umana, al pieno sviluppo delle soggettività e all’etica dell’auto-determinazione e dell’emancipazione.
Indubbiamente, l’odio non è e non può essere il principale o l’unico stimolo al totale rinnovamento in contrapposizione a una consunzione generalizzata. Ciononostante, al di là di qualsivoglia pericolosa apologia dell’odio individuale, un odio di classe politicamente e socialmente organizzato non è un nemico da ostracizzare e non se ne può assolutamente fare a meno. Disse Che Guevara: «Lasciatemi dire, a rischio di sembrare ridicolo, che il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore». Ebbene, è per amore che urge odiare di più e meglio un sistema che per sua stessa natura è insostenibile, metastatico e, quindi, inconciliabile con il prosperare della vita stessa.
Gianmario Sabini