Quando Mario Balotelli ha deciso di rispondere alla domanda del giornalista sulla questione ius soli era consapevole del fatto che quello attuale costituisce forse il momento più difficile per sensibilizzare sul tema dell’integrazione. Le forze antisistema al potere e l’avvento di una destra sempre più nostalgica in tutto il continente Europeo, uniti alla sfiducia verso qualsiasi forma di istituzione politica, hanno come diretta conseguenza la propaganda e la successiva attuazione di politiche individualiste, basate sulla valorizzazione del “cittadino”, messo al centro di tutto e prima di chiunque altro. Ciò comporta la riluttanza verso qualsiasi politica volta all’integrazione e fondata su ormai effimeri valori come la fratellanza, perché un Paese può e deve occuparsi solo dei suoi cittadini, non deve disturbarsi, né ha il tempo di badare a quelli che vengono da fuori. L’Italia ne è l’esempio lampante: il cittadino sponsorizzato dalla politica propagandistica è colui nelle cui vene scorre il sangue italiano, il cui legame con il territorio può essere solo rappresentato dall’avere quanto meno origini italiane; il cittadino odierno è colui che è abbastanza italiano da andare ogni domenica allo stadio o di giocare a tombola durante le vacanze di Natale. Tuttavia, e purtroppo, l’attuale concezione di cittadino che circola tra gli italiani è anche frutto della legislazione in vigore in materia di acquisizione della cittadinanza, quel tanto discusso (ed obsoleto) ius sanguinis per il quale puoi essere considerato italiano soltanto nel limite in cui uno dei tuoi genitori possegga già la cittadinanza e in virtù del quale, in mancanza di genitore italiano, alla mera nascita sul territorio non viene data alcuna rilevanza. Nemmeno se a quella nascita fanno seguito 15 anni continui di residenza, con annessa frequentazione degli istituti scolastici e una perfetta integrazione dimostrata dalla ottima conoscenza della lingua.
Eppure, Mario Balotelli, nato da genitori stranieri in Italia e cresciuto sul suolo tricolore, ha provato a trasmettere il disagio di chi, come accaduto nel suo caso, non può essere considerato italiano fino al raggiungimento della maggiore età. Disagio che si accentua se il colore della tua pelle non corrisponde a quello dei tuoi compagni di scuola, dei tuoi compagni di squadra, che inevitabilmente finiscono per considerarti diverso da loro, di un gradino inferiore, perché in fondo è la legge che lo dice. Diciotto anni vissuti in una condizione di disparità non devono essere qualcosa di gratificante per una persona che nel corso degli anni ha vissuto il territorio in una misura quanto meno pari a quella dei suoi coetanei, il cui unico vantaggio era quello di avere una madre o un padre dal sangue tricolore. Ci ha provato Mario Balotelli a spiegarlo, finché, dall’alto della sua nuova posizione di Ministro dell’Interno, qualcuno non ha deciso di sminuire fino quasi ad eliminare l’argomento, classificandolo come “non-prioritario”.
Del resto, quello dello ius soli è un topic gradualmente finito nel dimenticatoio, surclassato da altre questioni “più interessanti” per i gusti della popolazione, quali il reddito di cittadinanza e la flat tax. Proposte, queste ultime, rivolte esclusivamente al cittadino di cui sopra, colui che, quando si parla di soldi (che siano iniezioni di capitale o riduzioni di tasse) si fa abbindolare dal politico di turno come in una ipnosi. In tale clima non c’è spazio per lo ius soli, non c’è tempo né voglia di pensare agli stranieri, perché prima viene l’italiano. E l’italianità, nell’opinione generale, è qualcosa che i non-italiani devono conquistarsi, un privilegio che non può essere concesso a tutti. Lo ius soli è qualcosa di troppo irritante in questo momento storico, in quanto rischierebbe di parificare due categorie di persone che, molto tristemente, ancora non vengono considerate uguali. Ecco perché il progetto di legge che doveva portare alla sua approvazione è naufragato in Parlamento lo scorso dicembre, a causa della riluttanza di quegli stessi partiti che, guarda caso, oggi siedono al Governo e lo etichettano come non-prioritario.
Ma per quale ragione, caro Matteo Salvini, non dovrebbe essere considerata una priorità? Dove risiede il motivo per cui il diritto all’acquisizione di un importante status in favore di persone che, sulla base di chiari elementi obiettivi, lo meritano, dovrebbe essere considerato un argomento di secondo piano? Da quando l’impossibilità di godere dei diritti politici è un tema di effimera importanza?
Il (legittimo e ineccepibile) conferimento di uno status che consente ad un individuo di partecipare attivamente nella vita politica della comunità cui appartiene da tempo è qualcosa che non può essere trascurato. Il sistema della “ininterrotta e legale” residenza fino al compimento della maggiore età è qualcosa che crea disparità, accentua le differenze, diffonde la cultura del diverso. E, a dirla tutta, è anche ingiusto, considerando che quella stessa ininterrotta (e quasi interminabile) residenza è pur sempre legata alle scelte dei genitori del ragazzo, che potrebbero arrestarla a seguito di improvvisi spostamenti verso altri Paesi; spostamenti il più delle volte dettati dalla necessità (scadenza del permesso di soggiorno o ragioni economiche).
Quello che Mario Balotelli, con le sue parole semplici, ha cercato di comunicare, è che la cittadinanza è uno status che va relazionato all’esistenza quotidiana di una persona, a ciò che essa fa ogni giorno, non può essere esclusivamente legato al sangue o alle origini della tua famiglia. Spesso gli “stranieri” nati sul nostro territorio sono integrati in esso persino di più di quanto lo siano persone nate all’estero da genitori italiani, e che all’estero continuano a viverci, ma che, tuttavia, mantengono lo status di cittadini italiani (la ragione sta nel fatto che la cittadinanza italiana non si perde per acquisto di cittadinanza straniera o per residenza stabilita all’estero, salvo volontaria rinuncia). Ebbene, tutelare la peculiare posizione di queste persone è qualcosa di prioritario, così come lo è ridurre l’ingiusto divario tra i discendenti degli italiani all’estero e gli immigrati che risiedono in Italia da molto tempo, a cui il riconoscimento di molti diritti politici è negato.
Per questo motivo Matteo Salvini dovrebbe dare ascolto a Mario Balotelli. Certo, quel ragazzo capriccioso ed immaturo dal carattere difficile non possederà tutte le caratteristiche per indossare la fascia di capitano (e su questo, forse, Salvini ha ragione), né verosimilmente rappresenta la personalità più indicata per un consiglio politico. Tuttavia, in questo preciso ambito, considerata la particolare condizione vissuta sin dalla nascita, è una di quelle tante persone che ben può spiegare come il tema in oggetto costituisca qualcosa di sensibile, la cui importanza non va sminuita.
Appelli come quello di Balotelli sono essenziali considerato l’attuale contesto politico, dove in mancanza di una vera area politica di Sinistra, risulta difficile intravedere forze politiche alternative che possano farsi carico della questione. Ma la mera discendenza sanguigna non può ostacolare la valorizzazione del senso di appartenenza sentito da coloro che un territorio lo vivono quotidianamente. E di questo dovremmo essere consapevoli noi tutti, prima ancora che qualsiasi partito politico.
Amedeo Polichetti