Vado Verso Dove Vengo, storie di partenze e ritorni nell’Italia dei margini è il titolo del documentario ideato nell’ ambito del progetto Storylines – The Lucanian Ways, prodotto da Matera 2019 – Capitale Europea della cultura, co-prodotto dalla Fondazione Matera-Basilicata 2019 e dall’associazione Youth Europe Service, cofinanziato da Lucana Film Commission.
Vado Verso Dove Vengo, una storia di vita
Nelle zone interne di una parte di Italia, tra le valli e le montagne che sono circondate da grandi parchi, a poca distanza dal mare nel silenzio dei calanchi, prende forma una fotografia inquietante e rassicurante insieme della nostra realtà: è lo scatto scandito dai ritmi di chi parte e di chi resta.
Protagonista è la Lucania, concentrato ambivalente, luogo di vuoto e pienezza. A spiegarci meglio il senso del documentario ci pensa, rispondendo ad alcune nostre domande, Luigi Vitelli che di Vado Verso Dove Vengo è autore nonché direttore artistico, e che ha lavorato insieme al regista Nicola Ragone a un progetto che parla di Basilicata ma anche di Piemonte, Lombardia, Campania, Sicilia, del Nord e del Sud, dell’entroterra dell’intera nazione, perché l’emigrazione è oggi una condizione comune.
Un film documentario intenso, fatto di testimonianze. Di cosa parla Vado Verso Dove Vengo?
«Vado Verso Dove Vengo è una ricerca fatta di studi e letture approfondite sulle discipline legate al tema delle aree interne, a partire da un punto di riferimento letterario che è impersonato in Vito Teti, consulente scientifico, antropologo e scrittore che da vent’anni si spende per la geoantropologia dell’abbandono e del ritorno.
Questa ricerca è nata dall’osservazione di una fotografia pietosa della realtà italiana che vede il 60% del territorio nazionale, quello costituito dai piccoli paesi dell’appennino e delle montagne, vivere un disagio insediativo: qui, dove vive il 15% della popolazione, sono numerosi i comuni che contano meno di 10000 abitanti, e tra questi la maggior parte addirittura meno dei 2000; si tratta di numeri in continuo movimento perché frutto di un processo di spopolamento ed emigrazione, sia verso le grandi città italiane e sia verso le città dell’estero.
C’è un modello urbano-centrico dominante che per varie cause, tra cui una maggiore offerta di lavoro e di servizi basilari, spinge ad abbandonare i piccoli centri che rischiano di scomparire e diventare città fantasma.»
Ci sono finestre spalancate che risuonano nel silenzio, strade affollate che a fatica ricordano spazi naturali pieni di musica. Ci sono immagini reali e altre evocate perché vissute attraverso le parole di testimonianze dirette. Quale direzione ha seguito il racconto narrativo di Vado Verso Dove Vengo?
«Sono due i filoni narrativi seguiti: il primo si è orientato sulla ricerca di lucani emigrati all’estero sia di vecchia che di nuova generazione. John Giorno poeta americano, Helene Stapinski giornalista del New York Times e scrittrice, Claudia Durastanti organizzatrice del Festival della letteratura italiana di Londra, Francesco Scavetta coreografo di danza contemporanea. Queste sono soltanto alcune delle voci narranti di Vado Verso Dove Vengo che plasmano immaginari di un passato che è stato e che mostrano come il legame che esisteva tra i doppi Paesi, originario e di arrivo, nel corso del tempo si è scucito.»
“Chi non sa nulla del Sud stia zitto, parli chi ha il coraggio di starci dentro, di attraversarlo lentamente.” Le parole di Franco Arminio che sentiamo pronunciare nel documentario pesano come macigni, ma lasciano intuire che esiste una forma di resistenza. Cosa vuol dire starci dentro?
«Ritornare deriva dal latino far girare sul tornio, significa plasmare qualcosa di nuovo, ma restare, invece, cosa significa: rassegnarsi a vivere in maniera statica? Vito Teti formula il concetto di restanza, termine che secondo la Treccani che lo ha adottato indica “la posizione di chi decide di restare, rinunciando a recidere il legame con la propria terra e comunità d’origine non per rassegnazione, ma con un atteggiamento propositivo”.
In Vado Verso Dove Vengo emerge dalle voci di chi racconta la propria restanza un altro filo narrativo, quello dei ritorni. Sul territorio lucano emerge l’esperienza proprio di Franco Arminio, organizzatore del Festival La luna e i calanchi di Aliano, e ancora di Andra Paoletti con la sua Wonder Grottole, una storia di recupero basata sulla capacità di mettere in comunicazione i bisogni della comunità locale e di chi vive altrove. Sono visioni di ribaltamento del modello urbano-centrico dominante, a favore di luoghi dimenticati che resistono. Starci dentro vuol dire vivere gli spazi, interpretarne la lentezza e tradurne i bisogni. Nel tentativo di creare comunità provvisorie, il luogo si fa matrice.»
Pensi che vedere con i propri occhi immagini che si fanno parola di fronte a una realtà vista spesso in modo miope possa trasmettere meglio il significato di abbandono?
«L’osservazione miope della realtà e l’assuefazione alla stessa sono le cause del decadimento dei territori. Ci si è rasseganti all’idea che non potessero esserci semi di produttività. Sono state dimenticate le aree interne e le materie prime che in queste sono presenti. Sono state ignorate le problematiche che si sarebbero riversate inevitabilmente nelle città.»
C’è un altrove, c’è un dopo. La vita di chi sceglie di andare procede lontana dall’origine, oltre la mnesis, la vita di chi ritorna avanza verso luoghi evocativi scandita da ricordi che devono ancora essere. Quanto è importante la memoria?
«Conoscere la storia dei luoghi è fondamentale perché bisogna ripartire dai ruderi, non si auspica il ritorno a un passato che non c’è più quanto la costruzione di una memoria disposta a diventare futuro.
Le comunità che crediamo possibili sono realtà coscienti di ciò che sono state e allo stesso consapevoli di ciò che potrebbero diventare, capaci di prendere parola, dialogare e resistere all’ interno di flussi globali, potenziali “comunità del nesso”, potremmo definirle in questo modo. Sono soggetti che sperimentano e che interpretano l’esigenza di riaprirsi al mondo proprio perché, guardando alla propria memoria, lo hanno sempre fatto.»
Alba Dalù