donne politica

Scaltre, determinate, mascoline, “con le palle“, maschiacci, lady di ferro o “inchiavabili”, madri, donne e cristiane: la narrazione delle donne in politica non è mai stata particolarmente gentile, specie quella dell’ala conservatrice del Paese. Eppure, dall’Europa all’Italia è il centro-destra che esprime attualmente le (poche) leader o figure di spicco femminili della politica. E la sinistra?

Il Paradosso dell’Angelo del Focolare

Secondo i dati elaborati da IlSole24Ore e Pagella Politica, la partecipazione femminile ai governi della Seconda Repubblica è indubbiamente cresciuta, così come è cresciuta la quota di donne in Parlamento, passata da uno stentato 10% ad un (ancora non sufficiente) 37%.

Medaglia d’oro per il Movimento Cinque Stelle che ha assegnato ad una donna circa un incarico ministeriale su tre dal suo ingresso in Parlamento. Segue l’ala di centro-sinistra e, fanalino di coda, i partiti del centro-destra. Nulla di nuovo, sembrerebbe: una ripartizione di merito che asseconda quella ideologica, quasi come in un distico gaberiano per cui a destra la donna rimane a casa, a sinistra lavora, e lavora addirittura come un uomo (quasi) nella cellula impazzita del Movimento Cinque Stelle.

Stando così le statistiche, viene da chiedersi perché – in Italia come altrove – quando si parla di posizioni apicali, di gestione di ruoli di potere la statistica si capovolge e le donne che riescono ad infrangere il cosiddetto muro di cristallo sono quelle che, tradizionalmente, rifuggono le luci della ribalta per dedicarsi all’accudimento della casa e dei figli?    

Le donne a sinistra partecipano alla vita politica del proprio partito, diventano sottosegretarie, vice-ministre, addirittura ministre in alcuni casi anche se mai nei ministeri più “difficili”, mentre a destra, le donne, assumono la leadership dell’area politica. Certo, non è una gara a fare di più. Ma è possibile spiegare questo paradosso?

Intendiamoci, non che a sinistra non ci siano personalità politiche interessanti e a cui guardare con speranza per il futuro prossimo (Elly Schlein, per esempio), ma nessuna in posizioni apicali o di guida. Relegate al massimo al ruolo di comprimarie o addirittura succubi, tanto da far decidere a un uomo – il capopartito – se dimettersi dal proprio ruolo di ministre e far cadere un Governo o meno.

L’emancipazione sociale e familiare tanto agognata si dimostra così non sufficiente, perché il ruolo del capostipite, del padre di famiglia è giocato ora dal segretario di partito o presidente del movimento. Tutto cambi, affinché tutto resti uguale. E, a cambiare, è solo il contesto: prima la famiglia, ora il partito.

Intanto, le donne di destra imparano presto ad esprimersi alla pari degli uomini, affermano il femminismo pur non appropriandosi spesso delle sue battaglie, capiscono i linguaggi degli uomini e comprendono che per quanto possano non essere giusti, sono quelli i linguaggi dominanti. Non hanno timore a mostrare il “tipico maschile”, le caratteristiche e le virtù che nel sistema di pregiudizi comuni vengono assegnate agli uomini, sentendosi più libere da sovrastrutture, senza il peso di dimostrare di essere necessariamente diverse dal sesso opposto. 

Che genere di politica?

Sarà mai che le donne di destra siano più abituate, più sincere nel loro sgomitare verso il potere, mentre quelle di sinistra vengano intortate più facilmente da “pari opportunità”, “gender equality“, “la squadra vince”, “quote rosa”, “uno vale uno”, “preferisci il Comune di Roma o quello di Torino? Però one-shot“, “sì, stai tranquilla, la tua idea è buona, la teniamo; però sta lì buonina?

È davvero così?

Un punto di vista interessante sulla questione è quello della giornalista Jennifer Guerra, la quale, riprendendo la tesi della sociologa Sara R. Farris, lega l’ascesa delle donne di destra in politica alla questione dei flussi migratori. Secondo Farris e Guerra, molte donne della destra avrebbero fatto proprio un filone di pensiero, il “femonazionalismo”, in grado di mixare al suo interno diritti delle donne con istanze nazionaliste. Questa corrente, in grado di veicolare in un unicum ideologico molto pericoloso le idee di “difesa dei confini”, protezione della cultura del proprio Paese e superiorità della società occidentale rispetto a quella, ad esempio, mediorientale, le avrebbe avvantaggiate nel dibattito politico pubblico, sia in termini di efficacia che di maggiore credibilità rispetto ai propri omologhi maschi.

Per dirla in altre parole: se sei una donna e parli di femminismo su base razziale, la tua voce viene ascoltata molto di più, e molto di più di quella di un uomo.

Secondo questa teoria infatti l’emancipazione femminile sarebbe una prova ulteriore della superiorità occidentale e le istanze femministe un’arma utile per discriminare intere popolazioni e tracciare il confine tra “noi” e “loro”.

Le classi discriminate piuttosto che unirsi strumentalizzano sé stesse e tutto viene asservito al perseguimento della lotta, tutta maschile, dell’uomo contro uomo.

Potrebbe essere una tesi convincente, questa. Un’arma che le donne di sinistra in politica non hanno o che comunque nelle loro mani risulta più debole. Una tesi che avvalora il caso italiano con Giorgia Meloni, ad esempio, ma che non spiega il caso Metsola, la nuova Presidente del Parlamento Europeo che sostiene addirittura tesi antifemministe, contrarie all’aborto. In questo caso, allora, bisognerebbe supporre che le donne di destra, rinunciando quasi del tutto ai temi della lotta femminista (appannaggio quasi esclusivo della sinistra) risultino più centrate, più serie, più focalizzate sulle questioni dei maschi e, quindi, conseguentemente più affidabili. Lo dicono a gran voce molte deputate di Forza Italia, ad esempio, sottolineando come, mentre alcune colleghe perdono tempo dietro i pronomi e il genere delle parole, loro lavorano e, per merito, arrivano ad occupare posizioni apicali.

È il marketing, bellezza.

Forse la sinistra è ormai, a prescindere dal genere dei politici che offre, incapace di comunicare con il suo elettorato proprio in forza di una superiorità intellettuale ancorata ad un sistema ormai defunto. Pesca nel passato perché incapace di formare il nuovo, vagheggia i tempi dorati di una sinistra appassionante ed è incapace di sperimentare il nuovo.

La destra, da questo punto di vista, è molto meno conservatrice. Quella moderata offre ciò che il mercato chiede, senza dover ogni volta accendere un cero ad Almirante. È intraprendente, mentre la sinistra rimane a guardare: l’una si perde nelle teorie, in ciò che è moralmente giusto ed eticamente sbagliato, nei proclami di inclusione, l’altra valuta, sente l’elettorato ed elargisce ciò che può portare più consenso: Giorgia Meloni oggi, Matteo Salvini ieri.

E poi, in politica, fanno più fatica le donne di sinistra. Quelle di destra hanno imparato il linguaggio degli uomini, hanno imparato a mimetizzarsi tra loro, hanno imparato a mordere un avversario che mostra i suoi denti. Hanno imparato a non ingarbugliarsi nelle contraddizioni dei loro stessi temi. Tagliano corto, accettano di essere donne, madri, professioniste. Hanno ridotto la complessità del loro essere femmine.

Le donne di sinistra, no. Le donne di sinistra sudano ogni successo, guadagnano ogni traguardo e cercano di farne il traguardo di tutte. Contestualizzano, problematizzano. Pongono l’accento su questioni altrimenti dimenticate da tutti, ma si allontanano così da ciò che l’elettorato vuole. Perché l’elettorato italiano è cattolico, conservatore, religioso, borghese. E allora l’accetta una madre, cristiana, che bercia in tv contro un bambino affogato nel mediterraneo, la sopporta, le applaude. Perché in quel tratto non è la madre che parla, è l’uomo in cui l’altro uomo può riconoscersi.

Difficile è empatizzare con chi ti dice che il congedo di paternità è un tuo diritto e sì, se hai un figlio tu padre puoi rimanere tre mesi a casa. Perché in questo caso, è la mascolinità che vai a stuzzicare, è una tessera del puzzle del patriarcato che vai a togliere. E questo, l’elettore maschio come anche l’elettrice femmina, non riesce a sopportarlo.  

E quindi votiamo per la donna che più ci ricorda un uomo. Quella che ha le “palle”, quella che non frigna. Votiamo assecondando il principio del risparmio energetico. Votiamo l’idea che ci sembra più convincente. Ed è sempre l’idea che somiglia a un uomo.

Edda Guerra

Edda Guerra
Classe 1993, sinestetica alla continua ricerca di Bellezza. Determinata e curiosa femminista, con una perversa adorazione per Oriana Fallaci e Ivan Zaytsev, credo fermamente negli esseri umani. Solitamente sono felice quando sono vicino al mare, quando ho ragione o quando mi parlano di politica, teatro e cinema.

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