Il 12 aprile la Camera dei deputati, con voto di fiducia, ha convertito in legge il decreto Minniti-Orlando che contiene «Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché misure per il contrasto dell’immigrazione illegale». Una risposta nazionale a problemi europei legati all’applicazione dei regolamenti di Dublino in materia di rifugiati.
Tra le misure che fanno più discutere troviamo l’eliminazione dell’appello per i procedimenti di richiesta di riconoscimento dello status di rifugiati, l’abolizione dell’udienza in primo grado sostituita da un rito camerale e la creazione di sezioni ad hoc nei tribunali per evadere le pratiche d’asilo secondo le competenze stabilite dai regolamenti di Dublino.
Ma da dove viene questa esigenza di celerità? Perché funziona lentamente e male il procedimento di riconoscimento della protezione internazionale? La competenza in materia di asilo ora appartiene all’Unione Europea ma già negli anni ’90, prima della formale attribuzione del tema alle istituzioni comunitarie, la determinazione dello Stato competente per l’esame delle domande di protezione era regolata dalla Convenzione di Accordo di Schengen e dalla Convenzione di Dublino del 1990 (il cosiddetto Accordo Dublino I). Allora l’esigenza era quella di evitare il prodursi del fenomeno dei rifugiati in orbita e si stabiliva con certezza almeno uno Stato competente a esaminare la domanda di asilo.
Le cose sono poi cambiate, fino ad arrivare al regolamento 604/2013, detto Dublino III, che stabilisce nuovi criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una richiesta di protezione internazionale.
Questi criteri, a parte casi di ricongiungimenti familiari, sono principalmente legati al Paese di primo approdo o di prima identificazione. L’obiettivo principale è dunque diventato quello di limitare i movimenti secondari dei rifugiati. Ciò significa che, una volta ricevuta la domanda di asilo, i potenziali rifugiati vengono presi in carico dallo Stato che evade la pratica e rimangono bloccati nel Paese di accoglienza, senza la possibilità di muoversi liberamente nello spazio Schengen neanche dopo l’eventuale riconoscimento dello status di rifugiato.
Almeno sulla carta, l’intento di Dublino III era anche quello di giungere a una equivalenza dei sistemi nazionali di asilo, in modo tale da rendere indifferente il fatto che la domanda di protezione fosse avanzata in un Paese dell’Unione Europea invece che in un altro. Nei fatti questo meccanismo si è rivelato farraginoso e irrispettoso, in molti casi, dei diritti umani dei rifugiati.
Il sistema d’asilo europeo non ha mai creato meccanismi di accoglienza uniformi, basti pensare che non tutti gli Stati riconoscono la cosiddetta protezione umanitaria. Tutto ciò ha finito per scaricare sugli Stati posti ai confini esterni dell’Unione il peso dei flussi migratori dei soggetti più disperati che arrivano in Europa con mezzi di fortuna, non potendo dunque scegliere, nei fatti, il Paese in cui arrivare e verso cui avanzare la domanda di asilo.
Il regolamento Dublino III, per poter funzionare bene, ha bisogno di due elementi fondamentali: certezza nell’individuazione del Paese competente a evadere la pratica e rapidità delle procedure. Proprio per garantire la celerità delle procedure, il regolamento prevede che, a priori, tutti gli Stati membri siano considerati sicuri per i cittadini dei Paesi terzi, postulando dunque una presunzione di sicurezza che è corollario del principio della reciproca fiducia tra Stati dell’UE.
Quest’ultimo punto rappresenta il nocciolo della “saga Dublino”, cioè la disputa, tuttora in atto, tra Corte di giustizia europea e Corte europea dei diritti dell’uomo.
La prima Corte, con l’intento di salvaguardare il buon funzionamento delle istituzioni europee e di perseguire l’obiettivo di celerità stabilito dal regolamento 604/2013, ritiene che la presunzione di sicurezza sia una presunzione assoluta. Ciò comporta che, a detta della Corte di giustizia europea, uno Stato vale un altro in termini di sicurezza e, quindi, se un migrante avanza richiesta di asilo in un Paese sbagliato secondo le regole sulla competenza, quest’ultimo può trasferirlo nello Stato competente senza doversi assicurare se questo riceverà un trattamento umano e dignitoso e senza tener conto della situazione soggettiva che, nel caso, potrebbe rendere umanamente degradante o irrispettoso un suo trasferimento.
La Corte europea dei diritti dell’uomo, invece, ritiene che la presunzione di sicurezza sia una presunzione relativa e che quindi, prima di effettuare un trasferimento secondo le regole sulla competenza per il riconoscimento dello status di rifugiato, lo Stato trasferente debba preventivamente verificare se lo Stato di arrivo sia davvero sicuro e se le condizioni soggettive del migrante permettano il trasferimento.
Insomma, da un lato c’è la salvaguardia del sistema Dublino e dall’altra c’è il rispetto dei diritti umani, senza che vi sia modo di conciliare utilmente i due aspetti. Si è venuto a creare un caos politico e giuridico, e i tentativi di arrivare a modifiche del regolamento 604/2013 sono sempre falliti, soprattutto a causa dell’intransigenza degli Stati europei dell’est.
Nel frattempo i migranti continuano ad arrivare, tanti continuano a morire nel tragitto e altri ancora vengono imprigionati e torturati in Libia o negli altri Paesi in cui sono stati siglati scellerati accordi per bloccare le loro partenze. Quelli che riescono ad attraversare il mare vorrebbero raggiungere gli Stati del nord Europa e, per evitare di essere identificati nei Paesi di primo approdo del sud e rimanere bloccati lì, in alcuni casi arrivano a bruciarsi i polpastrelli.
Per decongestionare il farraginoso sistema Dublino bisognerebbe unificare veramente gli standards europei di accoglienza e garantire la mobilità secondaria di coloro a cui viene riconosciuta la protezione internazionale, in modo tale da ottenere una loro collaborazione in sede di identificazione e arrivare velocemente a valutare le richieste di asilo. Invece, in un continente inghiottito dagli egoismi, non si riesce a trovare un accordo tra Stati che vada in questa direzione.
In questo quadro in cui non si riescono a trovare soluzioni a livello comunitario, il nostro Paese, per velocizzare le procedure di riconoscimento, sembra decidere di ridurre i tempi comprimendo i diritti. E allora, se ci sono troppe domande di asilo, è forse più facile eliminare l’appello contro un eventuale diniego e abolire il colloquio dal vivo dinanzi alla commissione, riducendo il tutto a un rito camerale in cui si esamina il video dell’intervista al migrante.
L’ideologia della velocità non contempla appelli e soluzioni alternative. La risposta del decreto Minniti-Orlando potrebbe apparire la risposta semplice a problemi complessi, mentre l’incapacità dell’Europa di modificare Dublino III rende le istituzioni comunitarie (e tutti gli Stati membri) complici di questa scelta.
Mario Sica