Sono stati resi pubblici solo pochi minuti, ma l’effetto è quello di un documento storico: Papa Francesco, intervistato dalla Radio Televisione Svizzera (RSI), chiede a Kiev il coraggio di negoziare perché «è più forte chi vede la situazione, chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca».
Ed eccoci qui a parlarne. Perché, al di là di ciò che può pensare il Papa sulle questioni di politica internazionale di cui poco dovrebbe occuparsi prediligendo altre questioni non necessariamente metafisiche ma ben più interne alla Sacra Romana Chiesa, è interessante capire quali sono le conseguenze di frasi scelte con cura e lanciate per creare un po’ di hype per un’intervista che uscirà il prossimo 20 marzo.
Del coraggio, e altri strumenti retorici
Scegliere le parole giuste, cadenzarle con cura, imparare che, ad ogni parola, corrisponde un significato e, a quel significato, un’azione: è la terza legge di Newton applicata alla politica, alla diplomazia, e banalmente a tutte le relazioni umane. Una parola non è mai un involucro vuoto. È la rappresentazione in grafemi della complessità dei nostri pensieri, l’unità di misura dell’estensione delle nostre idee. Ma è anche un abile strumento di sopraffazione e di inganno.
Ad esempio: negoziare.
Negoziare è un verbo bellissimo, specie nei conflitti tra Stati: è il verbo della diplomazia, il verbo che precede e costruisce gli accordi di pace. Ma basta aggiungergli una piccola, apparentemente insignificante, specificazione vicino e il suo significato muta: negoziato di resa ha un suono e un significato ben diverso da trattativa di pace. Il negoziato di resa non è una trattativa tra Stati che – entrambi stanchi di fare la conta dei propri morti – si siedono a tavolino e trovano una soluzione condivisa. Il negoziato di resa prevede che ci sia una parte sconfitta a chieder pietà e una vincente a dettare le condizioni. E come si può chiedere ad un popolo che da tre anni combatte per difendere non solo i propri confini, ma soprattutto la propria storia e la propria identità, di sedersi ad un tavolo e di dire “eccomi, sono il servo di Putin”? Non si può chiedere, tutto qui.
E infatti le reazioni alle parole di Papa Francesco sono state immediate. Sviatoslav Shevchuk, il Capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, rimarca il fatto che l’Ucraina non è ancora stata sconfitta mentre il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, su X scrive «La nostra bandiera è gialla e blu. Questa è la bandiera con la quale viviamo, moriamo e vinciamo. Non isseremo mai altre bandiere».
Kiev, pensati sconfitta
E c’è anche un’altra considerazione. In un clima mediatico che ha un po’ lasciato il mordente sulla guerra in Ucraina dopo i fatti del 7 ottobre e il susseguente massiccio attacco di Israele sulla popolazione di Gaza, invitare alla resa un popolo che sta invece resistendo con coraggio, non significa consegnarlo volontariamente e arbitrariamente all’oblio? Se è vero, ed è vero, che nelle guerre (o nei conflitti in generale, quali anche le elezioni politiche o discussioni tra parti) la percezione – ossia il modo in cui i fatti sono presentati e appaiono – anticipa l’esito delle diatribe per il semplice fatto che lo influenza, qual è il destino a cui il Papa sta consegnando l’Ucraina?
È presto detto: un destino in cui Kiev viene fagocitata da Mosca e, ironia della sorte, accade militarmente perché prima è accaduto mediaticamente.
Ora, senza dubbio il desiderio di pace universale è condiviso e sarebbe bastato a Papa Francesco sceglier con maggiore prudenza le parole da utilizzare per fare della sua intervista alla radio tv elvetica una tenera intervista al Capo della Chiesa Cattolica che prega giorno e notte per la fine dei conflitti nel mondo. Una miss Italia anni ’90, insomma, contro cui non si sarebbe alzata nemmeno un po’ di ironia. E invece no.
Invece Papa Francesco ha scelto proprio quelle parole, non risparmiandosi neanche sulla guerra d’Israele, descritta nelle parole del Santo Padre come la guerra di «due irresponsabili». Una descrizione che, al lettore o spettatore più informato, non potrà che sembrare un po’ fuorviante o perlomeno riduttiva se associata alla catastrofe umanitaria e politica che si consuma quotidianamente in una terra che dovrebbe esser al Papa tanto cara quanto agli ebrei e ai musulmani. Fuorviante ma, in una società che vuol dirsi democratica, anche valida.
E dato che l’Occidente – di cui Sacra Romana Chiesa è ospite nonostante talvolta si comporti da padrona – a pizzichi e morsi questa tanto bistrattata libertà d’azione e di pensiero, cerca di proteggerla, ci troviamo costretti ad accettarla, questa bizzarra descrizione. Anche perché, in tutta onestà, la versione del Papa, capo di uno Stato al quale non apparteniamo, non è tanto dissimile dalla versione del capo del nostro Stato, quello nel quale non ci riconosciamo.
Comunque del linguaggio e degli altri artifici retorici ne sa bene il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, il quale, raggiunto dalle domande di alcuni giornalisti, ha poi fatto da interprete per le parole del Pontefice affermando che per il Papa «il negoziato non è mai una resa» e che l’immagine della bandiera bianca starebbe ad indicare una generica “fine delle ostilità”, e non necessariamente la capitolazione di Kiev nelle mani del Cremlino: una metafora mal riuscita.
E dire che il Papa, nell’arsenale di parabole, similitudini e altri artifici retorici di Sacra Romana Chiesa, avrebbe potuto invece scegliere l’immagine della colomba bianca per simboleggiare l’avvento di una pace senza vincitori né vinti. E invece no: la bandiera. Che poi, effettivamente, tra “colomba” e “bandiera” ci si può sbagliare, e sbagliare è sempre lecito. Dopotutto, come si dice da quelle parti, “scagli la pesca chi è senza peccato”. O non era così?
Edda Guerra