Il teatro, tragico o comico che sia, resta l’espressione più viva della società ateniese del V secolo a.C. e, al tempo stesso, il genere letterario senza paralleli in nessuna forma di civiltà precedente. Ciò che persiste dell’immensa produzione teatrale non è che poca cosa e, per quanto riguarda la tragedia, l’innumerevole lista di drammaturghi si è ridotta all’indimenticabile terna: Eschilo, Sofocle e Euripide.

La tragedia si inserisce nel filone poetico dell’epica e della lirica, detraendovi strumenti espressivi (come l’utilizzo del trimetrico giambico e la struttura metrica e stilistica delle parti corali) e la materia, vale a dire il mito. La straordinaria innovazione, rispetto all’epica, sta nei personaggi che si staccano dalla trama e da formule intrise di tradizione, per agire autonomamente e senza alcuna presentazione introdotta da narratori esterni: gli attori entrano in scena, davanti ad un pubblico in attesa  del δρᾶμα (del dramma, dal verbo δράω, agire).  Il teatro è dunque azione e spettacolo (θέατρον, da θεάομαι, guardare), anche piuttosto complesso: il coro canta e danza, l’attore recita e declama (con la possibilità anche di parti cantate, le monodie)e il testo è accompagnato da musica. L’apparato scenico prevede macchine, maschere, costumi e scenografia che andranno ad evolversi proprio nel corso del secolo. L’evento  teatrale coinvolge l’intera città: è l’occasione per una sorta di psicodramma collettivo con funzioni catartiche e riflessive su dinamiche psichiche dell’individuo, senza mai tralasciare i rimandi storici e il calderone di usanze e tradizioni sullo sfondo.

Lettere in Soffitta, questa settimana, dunque, indossa maschera e chitone per un salto nel tragico d’età classica e per un approfondimento dedito all’opera di Eschilo.

Le poche notizie reperibili sulla vita di Eschilo sono state desunte dall’anonima Vita di Eschilo conservata insieme alle tragedie in alcuni manoscritti, poi integrata dalla voce riferita al poeta all’interno del lessico bizantino Suda e completata con alcuni dati cronologici riportati nel Marmor Parium (iscrizione di età ellenistica che ordina cronologicamente eventi dal mitico re ateniese Cecrope fino al 261 a.C.).

Eschilo (525- 456 a.C. ) ottenne 13 vittorie negli agoni teatrali e la sua fama presso il pubblico ateniese rimase inalterato anche dopo la sua morte. Il lessico Suda gli attribuisce 90 drammi, di cui solo 79 di nostra conoscenza. Tra i superstiti, l’intramontabile trilogia dell’Orestea composta da Agamennone,  Coefere e Eumenidi. La trilogia venne rappresentata nel 458 a.C., ottenendo una brillante vittoria. Le vicende trattate si sviluppano in tre drammi e si focalizzano sugli episodi salienti della saga degli Atridi: il ritorno a casa di Agamennone e il suo assassinio per mano della moglie Clitemnestra; il rientro in patria del figlio Oreste, che sotto l’incontestabile ordine di Apollo vendica il padre uccidendo la madre e il suo amante Egisto; ma le Erinni lo assalgono, per punirlo dell’orrendo delitto e, quindi, la sua fuga ad Atene per essere sottoposto a un processo che, presieduto da Atena e Apollo, vede la sua assoluzione. Al termine della tragedia, le Erinni si placano divenendo Eumenidi, ovvero benevoli.

Unica trilogia pervenuta per intero, l’Orestea mette in scena la maledizione che accompagna un’intera famiglia. Passione e paura innescano l’intreccio tragico e sfociano in un processo che condanna e assolve l’impensabile. I concetti di giustizia, di coscienza e l’idea di Stato vengono ripensati e capovolti.

Profondo eco ha, nella tragedia, il sentimento della vendetta. L’uccisione di Egisto nelle Coefere è costruita secondo uno schema che ricorda l’assassinio di Agamennone : entrambi, ignari del pericolo, vengono uccisivall’interno della reggia gridando alla platea la brutalità dei colpi subiti. L’uccisione di Clitemnestra (il vero momento culmine) si svolge in modo più drammatico, sotto gli occhi del pubblico. Uno davanti l’altro, i personaggi dilatano l’attesa: il figlio pronto a colpire, la madre intenta a difendersi, chiedendo la stessa scure con cui aveva ucciso il marito, colpevole della morte di sua figlia Ifigenia. Oreste, poco prima del colpo di grazia, esita. Oppresso da pulsioni contrastanti, dubita davanti al suo agire ma l’amico Pilade interviene ricordandogli il comando dell’oracolo delfico. L’imposizione religiosa è la sola soluzione capace di sgarbugliare l’intreccio della storia e di risolvere il dubbio amletico che attanaglia l’eroe. D’altronde come scegliere, lucidamente, tra il legame di sangue con la figura materna e il volere divino che legittima il diritto paterno alla vendetta e al riscatto?

“ORESTE: Hai ucciso chi non dovevi: soffri ora ciò che non dovresti” (Coefore v. 929)

Alla fine sarà proprio l’intervento della divinità, per la quale il giovane ha messo in discussione la propria morale, ad assolverlo e a salvarlo dalla follia.

Il processo, come da legge, si svolge sull’Areopago, il colle di Ares, luogo in cui, secondo il mito, avvenne il primo dei processi: quello contro Ares, il dio dell’uccisione, personificazione stessa della violenza.

Oreste, giunto al colle, deve essere purificato: nella concezione arcaica un atto empio comporta il contagio che deve essere necessariamente lavato via. Il giovane, fino a quel momento un emarginato, viene così riammesso nella comunità. Non vi è posto per il pentimento, tutto avviene secondo un rituale e alla luce della rispettosa osservanza del dettame pubblico e politico della πόλις.

“ATENA: Quest’uomo è stato assolto dall’accusa di delitto di sangue: pari è infatti il conto dei voti” (Eumenidi v.753)

Pamela Valerio

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