L’8 novembre la Corte Costituzionale ha deciso «sul cognome del figlio», dichiarando «l’illegittimità della norma che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa volontà dei genitori» e con ciò restituendo dignità al cognome materno.

La scelta della Consulta, com’era prevedibile, è stata definita da molti “storica”, una vera e propria vittoria delle donne, riscattate dall’ingombrante ombra del pater familias e finalmente in grado di trasmettere alla prole il proprio “codice familiare”.
Tuttavia, la situazione italiana è nei fatti ben lontana da una conquista di tale portata: nei meandri labirintici dei disegni di legge in attesa di attenzione sono difatti accasciati da anni quelli riguardanti l’attribuzione del cognome materno ai figli.

Il disegno di legge Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli, presentato su iniziativa della deputata Laura Garavini, è stato approvato dalla Camera il 24 settembre 2014, trasmesso al Senato il 26 dello stesso mese, annunciato durante una seduta del 30 settembre e assegnato alla 2a Commissione permanente il 3 ottobre 2014. Ciò nonostante, l’esame in commissione ha dovuto attendere il 26 settembre 2016 per avere inizio, il che significa che per due generosi anni il cognome materno ha atteso invano la normativa che ne avrebbe riformato le sorti.

Il disegno di legge in questione si compone di sette articoli, tutti tesi a introdurre nell’ordinamento italiano la possibilità di attribuire ai figli ambedue i cognomi dei genitori, eliminando la presunzione di precedenza che ad oggi vige in favore del cognome del padre.
L’articolo 1, in particolare, introduce nel codice civile l’art. 143-quater – «Cognome del figlio nato nel matrimonio» –, secondo cui al figlio nato da genitori coniugati sia possibile attribuire, laddove vi sia accordo tra madre e padre, uno dei due cognomi oppure entrambi. L’articolo stabilisce altresì che in mancanza di accordo tra i genitori vengano attribuiti entrambi i cognomi in ordine alfabetico:

«I genitori coniugati, all’atto della dichiarazione di nascita del figlio, possono attribuirgli, secondo la loro volontà, il cognome del padre o quello della madre ovvero quelli di entrambi nell’ordine concordato.
In caso di mancato accordo tra i genitori, al figlio sono attribuiti i cognomi di entrambi i genitori in ordine alfabetico.
I figli degli stessi genitori coniugati, nati successivamente, portano lo stesso cognome attribuito al primo figlio.
Il figlio al quale è stato attribuito il cognome di entrambi i genitori può trasmetterne al proprio figlio soltanto uno, a sua scelta».

Come si evince dal testo riportato, il figlio divenuto a sua volta genitore sarà poi chiamato a scegliere quale cognome trasmettere ai propri figli.
I successivi articoli regolamentano le fattispecie legate all’adozione e al riconoscimento dei figli naturali a seguito dell’avvenuta attribuzione del cognome del genitore che si è assunto dal principio la responsabilità del nascituro. In ambedue i casi la regolamentazione segue il principio di parità tra sessi, annullando le differenze radicate nell’ordinamento che subordinano la madre-moglie al padre-marito.

Tuttavia, la proposta della Garavini non introduce modifiche all’articolo 143-bis c.c., secondo cui la donna acquisisce il cognome del marito a seguito del matrimonio. Un disegno di legge, che pur ineriva alla possibilità di trasmissione del cognome materno, teso a rivedere l’articolo ora citato è stato presentato l’8 gennaio 2014 su iniziativa di Alessandra Mussolini: Modifiche al codice civile in materia di cognome dei coniugi e dei figli.
Il disegno di legge si compone di tre articoli: al primo articolo propone una revisione dell’attuale 143-bis c.c. al fine di sostituire l’obbligo di assumere il cognome del marito con la sola possibilità, lasciando alla moglie libera scelta in merito. Ad ogni modo, è utile sottolineare come l’obbligo in questione non trovi attuazione nella prassi odierna.

Il disegno di legge presentato dalla Garavini, che ha trovato celere approvazione presso la Camera, è stato all’epoca un’esigenza dettata da una pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, risalente al 2014. In quell’occasione, la Corte Europea si espresse su una sentenza della Corte Costituzionale datata 2006.
La sentenza in questione respingeva il ricorso di una coppia che aveva fatto richiesta ad «ottenere la rettificazione dell’atto di nascita della propria figlia minore nel senso che le fosse imposto il cognome materno in luogo di quello paterno». La Corte Costituzionale stabilì che:

«[…] non può non rimarcarsi che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna. […] Tuttavia, l’intervento che si invoca con la ordinanza di rimessione richiede una operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte. […] non è ipotizzabile, come adombrato nella ordinanza di rimessione, nemmeno una pronuncia che, accogliendo la questione di costituzionalità, demandi ad un futuro intervento del legislatore la successiva regolamentazione organica della materia».

La Corte, insomma, pur riconoscendo la necessità di un adeguamento dell’ordinamento italiano al principio di parità tra sessi, ritenne che la regolamentazione della fattispecie spettasse all’intervento del legislatore.
La Corte Europea, contestando questa sentenza, ritenne il ricorso ricevibile e invitò l’Italia ad adeguarsi alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), di cui si certificò la violazione nel dato frangente «dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8», rispettivamente “Divieto di discriminazione” e “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”.
Citando un passo della pronuncia è possibile identificare in maniera chiara la sostanza della violazione:

«[…] la Corte è del parere che, nell’ambito della determinazione del cognome da attribuire al “figlio legittimo”, persone che si trovavano in situazioni simili, vale a dire il ricorrente e la ricorrente, rispettivamente padre e madre del bambino, siano stati trattati in maniera diversa. Infatti, a differenza del padre, la madre non ha potuto ottenere l’attribuzione del suo cognome al neonato, e ciò nonostante il consenso del coniuge».

Il cognome materno è un problema che l’Italia è chiamata a risolvere non solo in base alla CEDU, ma anche sulla scorta della Convenzione dell’organizzazione delle Nazioni Unite sull’Eliminazione di Tutte le forme di Discriminazione Contro le Donne (CEDAW), adottata nel 1978 e ratificata nel 1985, che all’articolo 16 specifica:

«1. Gli Stati Parti prendono ogni misura appropriata per eliminare la discriminazione contro le donne in tutte le questioni relative al matrimonio e ai rapporti familiari e in particolare assicurano, sulla base della parità dell’uomo e della donna:
[…]
d) gli stessi diritti e responsabilità come genitori, indipendentemente dal loro stato civile, nelle questioni che si riferiscono ai loro figli; in tutti i casi l’interesse dei figli costituisce la considerazione preminente;
[…]
g) gli stessi diritti personali al marito ed alla moglie, compreso il diritto alla scelta del cognome, di una professione e di un impiego».

Da non trascurare sono poi i principi stabiliti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione italiana, che garantiscono i diritti inviolabili dell’uomo e l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, ripudiando qualsiasi forma di discriminazione.

Tuttavia, malgrado l’esistenza di una legge fondamentale che stabilisca il principio di non discriminazione per sesso e di convenzioni internazionali a tutela della parità tra sessi, l’Italia del 2016 è ancora sprovvista di una normativa che consenta la naturale trasmissione del cognome materno ai figli, equiparandolo a quello paterno.
Ad oggi, chiunque voglia assumere o far assumere a minori il cognome materno deve fare riferimento al D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, che all’articolo 98 regolamenta le «Modificazioni del nome e del cognome». Opzione che, oltre a richiedere una procedura abbastanza macchinosa, lascia al prefetto ampia discrezionalità nell’accogliere o meno la richiesta.

Tornando dunque alla pronuncia della Corte Costituzionale dell’8 novembre – di cui si attende il deposito per apprenderne le motivazioni –, appare evidente come questa sia un risvolto positivo per il lungo pellegrinaggio del cognome materno, ma che non sia risolutiva della questione: se ad essa non seguirà ciò che avrebbe già dovuto seguire la pronuncia della Corte Europea del 2014, ossia una legge ad hoc, il cognome materno resterà impigliato in cavilli burocratici e la parità tra uomo e donna, almeno in questo specifico caso, sarà ancora ostaggio di un ordinamento nato e sviluppatosi all’ombra del già citato pater familias.

Rosa Ciglio

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