La Lega Nazionale Democratica, partito pacifista birmano, in un contesto di elezioni libere, che non si verificavano nel paese da anni, riesce ad ottenere il 70% dei seggi in Parlamento e a sconfiggere il partito del governo, il Partito della solidarietà e dello sviluppo per l’unione.

La vittoria del Partito pacifista di Aung San Suu Kyi non è soltanto una mera vittoria elettorale come quelle che si presentano nei nostri territori, ma è molto di più: è la vittoria sudata, meritata, di una leader. La vittoria di una donna che ha difeso i suoi valori e i suoi ideali fino alla fine.

San Suu Kyi ha dovuto sopportare arresti domiciliari, lavori forzati e altre pene per reati inesistenti, è scampata alla morte quando i generali, che in Birmania avevano instaurato una dittatura, decisero di sparare sulla folla riunitasi in suo sostegno, non ha potuto ritirare il Premio Nobel assegnatole e non ha potuto nemmeno assistere alla morte del marito, malato di cancro, perché il regime non le permetteva di lasciare il paese, o meglio, perché lei si rifiutava di farlo. Andare via dalla Birmania, infatti, era la condizione posta per la sospensione della pena, compromesso che lei ovviamente ha rifiutato. Il suo partito, la Lega Nazionale Democratica, prende spunto per i suoi fondamenti dal movimento pacifista di Gandhi.

San Suu Kyi si è opposta ad un regime violento e antidemocratico e, come il Mahatma, anche lei lo ha fatto con la sua antitesi: il coraggio. Una dittatura è infatti basata sulla paura e sul timore delle ritorsioni che induce i sudditi a non vivere e a non contestare.

La sua vittoria, insieme a quella di Bidya Devi Bhandari, eletta Presidente in Nepal, riaccende le luci della ribalta su un tema ampiamente trattato in periodi strategici e volontariamente dimenticato in altri: quello delle donne al potere. Il tema della leadership femminile è infatti largamente discusso in campagna elettorale quando i partiti ci tengono a mostrare quanto il proprio team sia “rosa”, ma poi volontariamente dimenticato quando si parla di salari e mondo del lavoro. Tutte le volte che è una donna a ricoprire una carica importante, si tende a stupirsi o ad evidenziarne le caratteristiche tipicamente maschili che puntualmente sono presenti in questi casi perché in qualche modo, nonostante l’emancipazione e i progressi raggiunti da un punto di vista formale e giuridico, è ancora presente la dicotomia tra forza e debolezza che contrappone gli uomini e le donne e che necessariamente genera un conflitto tra pari.

Malala Yousafzai, attivista pakistana per i diritti all’educazione delle giovani donne come lei, che in prima persona ha subito l’odio misogino, parla di “femminismo come uguaglianza” e sostiene che per questo motivo tutti dovrebbero essere femministi. Essere femministi non vuol dire odiare gli uomini, ma significa schierarsi a favore di un mondo in cui i diritti riconosciuti siano i medesimi per tutti indipendentemente dal sesso o dall’estrazione sociale, se invece si parla di odio, il femminismo e le donne tutte avranno fallito.

Sabrina Carnemolla 

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