Nell’Europa post-Brexit si stagliano all’orizzonte scenari che soltanto un anno fa erano molto difficili da prevedere e che riguardano non soltanto la Gran Bretagna, intesa come l’isola più grande dell’arcipelago britannico, ma anche e soprattutto la vicina Irlanda del Nord, teatro di un conflitto armato che tra la fine degli anni ‘60 e la fine degli anni ’90 ha causato diverse migliaia di morti.
Eppure, da quelle parti, i problemi sembravano definitivamente risolti, per lo meno dal Venerdì Santo del 1998, anno in cui venne firmato il Good Friday Agreement, l’accordo di pace che segnò la fine della lotta armata in Irlanda tra le opposte fazioni degli unionisti e dei repubblicani, prodromico della resa ufficiale dell’IRA (Irish Repubblican Army) nel 2005.
And the battle’s just begun
There’s many lost, but tell me who has won
The trench is dug within our hearts
And mothers, children, brothers, sisters
Torn apartSunday, Bloody Sunday
Sunday, Bloody SundaySunday bloody Sunday — U2, War, 1983
Dei repubblicani — o indipendentisti — rimane oggi il Sinn Féin, primo partito fra i cattolici a Belfast e in forte crescita di consensi anche a Dublino, le cui posizioni si sono decisamente “ammorbidite” nel corso degli anni, il che ha attirato fra l’altro pesanti critiche dalle frange più estremiste del movimento.
Cosa c’entra questo con la Brexit? E soprattutto, quali sono gli effetti più immediati per “le due Irlande” all’approssimarsi dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea?
Per rispondere a queste domande bisogna fare un passo indietro, quando, la primavera scorsa, si era cominciato a discutere di un progetto di unificazione dell’Irlanda, che, in ossequio ai principi del diritto internazionale, avrebbe permesso alle sei contee dell’Irlanda del Nord di continuare a far parte dell’Unione Europea.
Dal punto di vista giuridico, infatti, il governo irlandese aveva chiesto di stilare un documento all’interno del quale inserire una “clausola DDR” — in riferimento all’integrazione nell’Unione Europea dell’ex Germania Est dopo la caduta del Muro di Berlino — tale per cui, in caso di unificazione in Irlanda, l’intero territorio dell’isola sarebbe diventato parte dell’Unione.
Qui bisogna richiamare in causa l’Accordo del Venerdì Santo, che prevedeva espressamente che una riunificazione del nord e del sud dell’Irlanda si sarebbe potuta raggiungere tramite referendum.
Tornando alla stretta attualità, a Dublino sono ancora in corso le trattative per la predisposizione di un accordo interno, che passano necessariamente per l’ottenimento della maggioranza in ogni parte dell’isola.
Se unità dev’essere, infatti, è necessario che la Repubblica d’Irlanda e l’Ulster siano d’accordo su ogni aspetto della vita politica del prossimo paese riunificato, e l’ultimo degli scogli da superare, in ordine di tempo, riguarda l’immigrazione. Ma l’accordo ha, necessariamente, un terzo interlocutore: quella Gran Bretagna di Theresa May dalla quale l’Irlanda del Nord dovrebbe staccarsi, per rimanere in quell’Europa che i britannici stanno per abbandonare.
Sul tema è nota da tempo la posizione dei Tories, che intendono promuovere una linea molto più restrittiva rispetto a quella dell’Unione Europea, che peraltro non possiede una disposizione comune — se non programmatica e, perciò, non vincolante — ma lascia ai singoli membri la libertà di decidere le politiche di ingresso dei nuovi arrivati.
L’Irlanda del Nord, nel referendum della scorsa estate, ha votato in maggioranza per rimanere in Europa, ragion per cui è ragionevole aspettarsi da Belfast una generosa apertura verso le posizioni di Dublino. Il problema risiede, piuttosto, in quello che dovrà essere il confine della nuova Europa unita, che i britannici vorrebbero collocare in mezzo alle due Irlande, mentre, al contrario, sarebbe più comodo ed opportuno spostarlo sulle coste dell’isola.
È di tutta evidenza che, a questo punto, non si tratta più soltanto di una questione logistica, bensì politica, e la soluzione al dilemma passa necessariamente da un’attenta valutazione dei fatti, che metta al riparo il popolo irlandese dalla recrudescenza di tensioni che dovrebbero considerarsi sopite.
Un approccio che pareva condiviso anche da David Davis, Segretario di Stato britannico per l’uscita dall’Unione Europea, che ha dichiarato a più riprese che il governo del suo Paese non avrebbe puntato al ritorno ad un irrobustimento dei confini fra Regno Unito e Irlanda.
Il problema, tuttavia, è ancora ben lontano da una sua soluzione, poiché le due parti sono ancora nel bel mezzo delle trattative, rese più complicate da elementi di politica doganale ancora in piena discussione.
Questi i fatti. Nel prossimo futuro, c’è da scommetterci, ci saranno delle novità. La speranza è quella che il buon senso prevalga sulle strategie economiche e sui giochi di potere.
Di solito succede esattamente l’opposto, ma il ricordo delle vittime del conflitto nordirlandese è ancora molto vivido nella memoria di tutti. Basterà?
Carlo Rombolà