Il 9 giugno, l’intervista rilasciata dal pubblicitario Massimo Guastini a un anonimo editorialista su Facebook, ha aperto accese discussioni in merito alle difficili condizioni lavorative nelle agenzie di comunicazione e fatto emergere innumerevoli testimonianze di donne che affermano di vivere quotidianamente fenomeni di sessismo, molestie e burnout. Protagonista del dibattito è divenuta in modo particolare la multinazionale milanese We are Social e la cosiddetta chat degli 80, composta dai dipendenti dell’agenzia e utilizzata al fine di condividere considerazioni, commenti e valutazioni sessiste e degradanti sui corpi delle proprie colleghe.
Zahra Abdullahi ha raccontato a Il Post di essere stata la prima persona a venire a conoscenza della suddetta chat quando, all’epoca dei fatti, nel 2017, aveva 24 anni e lavorava presso We are Social nel ruolo di copywriter e social media manager, in un ambiente che descrive come «un grande liceo in cui quasi tutti avevano poco più di vent’anni, divertente ma anche deresponsabilizzante». Proprio in questo stesso ambiente lavorativo, surrettiziamente familiare, i suoi ottanta colleghi di We are Social si sono sentiti legittimati nel perpetrare dinamiche sessiste a discapito delle varie colleghe. Infatti, spiega Abdullahi: «Ogni persona di sesso femminile che veniva invitata a fare un colloquio per una posizione a We Are Social veniva poi discussa talvolta dalle stesse persone che le avevano fatto un colloquio: […] decine di colleghe venivano confrontate, e i membri dovevano votare in base a specifici criteri».
Inoltre, nell’intervista a Massimo Guastini viene sottolineata la logica di branco sottostante a queste ripetute molestie verificatesi nell’agenzia We are Social: «Dagli stagisti ai capi reparti, decine e decine di messaggi ogni giorno. […] Una chat che si svolge in un ambiente di lavoro, durante l’orario di ufficio, con una sfilza infinita di messaggi espliciti, degradanti e umilianti». Appena scoperte le chat, l’azienda le ha chiuse e condannate, ma nessuna delle persone coinvolte è stata licenziata, né vi sono stati provvedimenti disciplinari nei loro riguardi, anzi molte di loro tuttora ricoprono ruoli di rilievo all’interno dell’agenzia stessa, mentre diverse lavoratrici scontano le gravi ripercussioni psicologiche del gesto.
Se attraversare corridoi pregni di machismo e sessismo è un vero e proprio esercizio quotidiano di sopravvivenza, denunciare espone all’ulteriore rischio di eventuali ritorsioni lavorative che ne potrebbero derivare, la vergogna, il timore di rivivere il trauma e soprattutto la paura di non essere credute. Vivere continuamente tali violenze di genere pone dubbi logoranti in merito, alla possibilità di presentarsi al lavoro ed essere più del proprio corpo e all’eventualità di trovarsi in un luogo che non sia realmente sicuro, come emerso dalle numerose testimonianze.
Tutte queste dinamiche alla base della rape culture non sono un unicum: è evidente che nel mondo della pubblicità, e non solo, sia sistemica la cultura dello stupro: non sono casi isolati, né sono un’emergenza. Questi fenomeni vengono normalizzati, incentivati e al contempo minimizzati perché è sempre la cultura dominante a decidere cosa è identificabile come violenza di genere e cosa non lo è. Emblematico è il recente caso del collaboratore scolastico accusato di violenza sessuale a danno di una studentessa, assolto dal Tribunale di Roma poiché secondo la sentenza l’azione dello stesso: «dura una manciata di secondi, senza alcun indugio nel toccamento: una manovra maldestra ma priva di concupiscenza».
L’egemonia etero-cis-patriarcale tende a istituzionalizzare pratiche di privilegio, di abuso e di violenza relative a opprimenti gerarchie sessuali e ad assoggettanti norme di genere; da ciò scaturisce, per di più, la vittimizzazione secondaria e la stigmatizzazione delle survivors. Da un’auto-rappresentazione di sé frutto di un determinato regime estetico-politico e notevolmente influenzata dall’oggettificazione sessuale e da una performatività permanente, ne deriva un viscerale senso di frustrazione e d’impotenza, che relega chi vive ciò a una condizione di atomizzazione sociale e precarietà esistenziale. Ciò rimarca il nesso tra sfruttamento, frammentarietà politico-sociale, ricattabilità e subalternità lavorativa, discriminazioni e violenze sessuali e di genere.
We are Social, rape culture e collettivizzazione della lotta
L’etero-cis-patriarcato si alimenta e auto-preserva necessariamente mediante la rape culture: sul corpo della donna viene esercitato un costante dominio politico che adopera la sessualità come arma. Le pratiche che sorreggono e alimentano la cultura dello stupro sono, fra le varie, il victim blaming, ossia la colpevolizzazione di chi ha vissuto delle violenze; lo slut shaming, ossia la stigmatizzazione dei comportamenti e dei desideri sessuali delle donne; la diffusione di contenuti multimediali sessualmente espliciti senza il consenso della persona ritratta; atteggiamenti e battute sessiste spesso derubricate a mera goliardia del singolo o del gruppo; la patologizzazione della violenza sessuale oscurandone così le radici sistemiche, socio-culturali ed educative.
Infatti, i mass media e, di conseguenza, chi ne fruisce, istituendo delle vere e proprie gogne pubbliche, tendono sia a discutere sistematicamente di ciò che le donne avrebbero fatto o meno per provocare un’aggressione sessuale, sia a raffigurare con elementi di bestialità e follia i violentatori. Anche se spesso, come nella vicenda di We are Social, le violenze si verificano in un contesto familiare-aziendale, che nulla ha di bestiale, e dove, invece, nella più assoluta banalità del male, regna l’egemonia maschile che perpetra e giustifica comportamenti violenti a scapito delle donne. Scrive l’autrice americana Jill Filipovic: «non a caso a livello cinematografico e letterario l’aggressione sessuale è spesso descritta come uno stupro compiuto da uno sconosciuto, nonostante il 73% delle aggressioni sia in realtà commesso da qualcuno che la vittima conosce, come il partner o un amico». Dunque, questi atti sono commessi allo scopo di esercitare il proprio potere su di un’altra persona.
Non a caso i modi con cui gli inquirenti prevalentemente affrontano e gestiscono i molteplici casi di molestie e di stupro sono incentrati sulla costante vittimizzazione secondaria e criminalizzazione di chi ha vissuto tutto ciò e al consolidamento di falsi pregiudizi relativi alla figura del carnefice. Anne McLeer scrive: «Le azioni della polizia, che spesso fanno sentire una donna come una criminale, e i tribunali, dove molte donne riferiscono di sentirsi violate per la seconda volta dal processo legale, così come la difficoltà di procurarsi una condanna, partono dal presupposto che la donna è da biasimare per essere stata violentata». Così, ogni elemento come lo stato di ebbrezza, l’outfit, la condotta e via discorrendo, banalizzerebbe il portato traumatico del vissuto e minerebbe la natura criminogena della violenza sessuale.
Ragion per cui, per contrastare la normalizzazione delle molteplici forme di violenza, la denuncia e il riconoscimento necessitano di quel legame che rimanda alla ricomposizione e all’organizzazione di una mobilitazione politica e di uno spazio collettivo di solidarietà, di mutualismo e di contro-egemonia. Il caso We are Social è significativo nell’individuare i meccanismi di omertà, d’introiezione del senso di colpa, di vergogna che esperisce chi, invisibilizzata e abbandonata alla propria individualità, non riesce a nominarla, a definirla, a denunciarla la violenza. Inevitabilmente il personale è politico e nella lotta rivolta contro i soprusi e la narrazione tesa a individualizzare fenomeni, invece, strutturali bisogna ricostruire e far proliferare delle forme socio-politiche di rivendicazione e di soggettivazione attraverso campagne pubbliche e assemblee territoriali sulle forme di violenza sessuale e di genere in cui si declina lo sfruttamento e la colonizzazione capitalista.
Scrive l’autrice e attivista statunitense Audre Lorde: «Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone». Ciò è necessario affinché si diffondano e si sedimentino prassi concrete con al centro la lotta al paradigma etero-cis-patriarcale e alla sua inscindibile connessione con il bio-capitalismo e con le sue derivazioni neo-fondamentaliste. Con la messa a valore del bios nel ciclo di sfruttamento e d’accumulazione capitalistico, le soggettività, i corpi e desideri sono strumentalizzati e ingabbiati in processi di estrazione e sussunzione dei ruoli, delle relazioni di genere, della riproduzione sociale e, quindi, della vita stessa. È così necessario riconoscere, sabotare e dis-identificarsi da tali dispositivi bio-etico-politici e non aderire né socialmente né politicamente all’assimilazione e alla spoliazione eteronormativa.
Difatti, l’insieme delle voci e delle azioni coagulatesi e sprigionatesi in realtà autonome come Non Una Di Meno ha fatto sì che emergesse radicalmente la natura sistemica delle violenze a danno delle donne e delle persone queer. Non è solo We are Social, bensì la dimensione strutturale di pratiche discriminatorie e violente che, dalle relazioni personali alle istituzioni, innerva l’intero sistema e ne assicura il funzionamento. Il capitalismo, in virtù del suo endemico parassitismo, collasserebbe se le donne non fossero costrette con la violenza a svolgere il lavoro riproduttivo e di cura, perché altrimenti non avrebbe più vite da soggiogare e da cui estrarre il suo surplus vitale.
La violenza sessuale e di genere non sono affatto un’emergenza giacché sono connaturate all’architettura socio-culturale della società attuale, però v’è indubbiamente un’urgenza: sradicare un plurisecolare sistema repressivo, oppressivo e misogino.
Celeste Ferrigno