Le perdite e i danni “devono essere affrontati in modo credibile, ed è giunto il momento di farlo”. Queste le parole che il nuovo capo delle Nazioni Unite per il clima, Simon Stiell, ha pronunciato nel suo primo incontro con la stampa alla Cop27.
Dello stesso avviso è anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres che, nella giornata inaugurale della Conferenza sul clima, si è fatto portavoce della necessità di promuovere un patto di solidarietà per il clima tra le economie sviluppate e quelle emergenti perché – ha detto – “o lavorano insieme per stipulare un patto storico che ridurrà le emissioni di gas serra e porterà il mondo su un percorso a basse emissioni di carbonio, o avremo il fallimento, che significherà il collasso climatico e la catastrofe”. Secondo il Segretario Generale sono soprattutto Stati Uniti e Cina, i due maggiori inquinatori a livello mondiale, a dover agire per rendere concreto questo patto e proprio la Cop27 rappresenta la migliore occasione per concordare una tabella di marcia che, in materia di perdite e danni (loss and damage in inglese), rifletta la portata e l’urgenza della sfida con cui l’umanità tutta è, suo malgrado, chiamata a confrontarsi.
Dando pieno appoggio alla causa, essa è diventata, dunque, uno dei temi fondamentali di questa Cop27 e – per la prima volta nella storia delle Conferenze sul clima – perdite e danni sono entrate a pieno titolo a far parte dell’agenda. Ma che cosa significa esattamente parlare di loss and damage in riferimento alla crisi climatica?
Perdite e danni alla Cop27: una definizione controversa
Sebbene se ne discuta ormai da anni e non solo alla Cop27, ancora manca – in realtà – una definizione universalmente condivisa su cosa debba intendersi per loss and damage, un tema da sempre caratterizzato da questioni particolarmente spinose, come richieste di giustizia, attribuzione e accertamento delle responsabilità storiche e azioni di risarcimento e compensazione. In termini generali, comunque, con questa espressione ci si riferisce agli impatti negativi che si manifestano in quei Paesi in via di sviluppo ritenuti particolarmente vulnerabili a causa di eventi metereologici estremi e/o di quelli cosiddetti a lenta insorgenza, dopo che siano state realizzate tutte le possibili misure di mitigazione e adattamento.
Gli impatti contemplati nella definizione di perdite e danni includono un’ampia gamma di fenomeni, alcuni dei quali possono essere quantificati e, dunque, espressi in termini monetari (si pensi alle conseguenze negative che un evento climatico estremo può produrre su infrastrutture e produzione agricola), mentre molti altri vengono indicati come “perdite non economiche”, in cui rientrano, per esempio, la progressiva scomparsa della biodiversità, del patrimonio e dell’identità culturale, delle conoscenze indigene e via dicendo. Proprio per far fronte all’insieme di queste catastrofiche situazioni, i Paesi a basso reddito stanno chiedendo ormai da anni l’attribuzione di maggiori responsabilità alle nazioni più ricche e inquinanti del mondo e, soprattutto, l’istituzione di meccanismi di finanziamento nuovi e adeguati per far fronte ai danni provocati dai cambiamenti climatici, che proprio su chi ha meno contribuito alla loro diffusione si abbattono con furia maggiore.
Crisi climatica, è il momento di risarcire i Paesi a basso reddito
Come dimostrato da un recente rapporto Oxfam, infatti, ogni anno (dal 1991) una media di 189 milioni di abitanti dei Paesi poveri è colpita da eventi climatici estremi, che finiscono con l’aggravare la situazione socioeconomica di Stati già fortemente indebitati. Stati che, come si diceva, sono i meno responsabili della crisi del clima, avendo prodotto e producendo tuttora meno emissioni climalteranti. Al contrario, i Paesi industrializzati – che si sono arricchiti proprio attraverso l’impiego di energia ricavata dai combustibili fossili – avendo maggiormente contribuito alle perturbazioni climatiche dovrebbero farsi carico degli oneri finanziari necessari a ripagare i danni causati dai cambiamenti climatici.
Il concetto di loss and damage, dunque, non ha nulla a che vedere con la solidarietà ma rappresenta, piuttosto, un debito che il Nord del mondo ha contratto nei confronti del Sud globale e che deve affrettarsi a ripagare. Eppure, malgrado l’assunzione delle proprie responsabilità sia, o dovrebbe essere, un principio regolatore di tutte le relazioni – incluse quelle tra Stati – le nazioni sviluppate hanno da sempre opposto una forte resistenza nei confronti del concetto di loss and damage, ritardando, come inevitabile conseguenza, la formulazione di una sua definizione ufficiale e rendendo difficile istituzionalizzarne il discorso all’interno dei vertici climatici.
Quando adattarsi al cambiamento climatico non è più sufficiente
Lo scorso anno, durante la Cop di Glasgow, la potente coalizione di Paesi in via di sviluppo nota come G77 ha chiesto, insieme alla Cina, l’istituzione di un meccanismo finanziario specifico per sostenere chi ne avesse bisogno, individuando un cortocircuito nell’idea che ai Paesi ricchi bastasse finanziare l’istallazione di pannelli solari e pale eoliche per ritenersi esonerati dal fornire un contributo economico nel caso in cui, ad esempio, interi edifici in una nazione in via di sviluppo vengano spazzati via da un uragano.
Finora le risorse finanziarie destinate ai Paesi a basso reddito, dunque, si sono mosse prevalentemente nel campo della mitigazione e dell’adattamento. Sono state, cioè, destinate a incentivare uno sviluppo a basse emissioni, per esempio attraverso l’impiego di energie rinnovabili e, ancora, a potenziare le infrastrutture o a costruire difese contro gli eventi estremi. E per quanto, ovviamente, anche questo contributo sia assolutamente necessario non può però essere sufficiente né rappresentare un modo per eludere le responsabilità storicamente accertate dei grandi emettitori globali, sui quali deve gravare l’onere dei risarcimenti climatici.
Proprio in quest’ottica va letta la proposta avanzata sulla scena internazionale dai Paesi in via di sviluppo: cominciare a considerare perdite e danni come la terza colonna portante della politica climatica (mitigazione e adattamento sono le prime due).
Come era prevedibile, tuttavia, le loro richieste sono state sistematicamente ignorate e la Cop26 si è conclusa con un nulla di fatto e l’annuncio di rilanciare il dialogo sull’argomento nel 2024.
Poi qualcosa è cambiato, oserei dire per fortuna, se non fosse che ad aver subito un cambiamento è stata la scala temporale entro cui si sono verificate tutte quelle anomalie climatiche con cui pensavamo di confrontarci almeno tra una decina d’anni. Così, le inondazioni devastanti verificatesi in Pakistan quest’anno, le ondate di calore estremo che sempre più frequentemente imperversano sull’Europa, l’avanzata irreversibile della desertificazione hanno fatto del tema loss and damage un argomento di cui non si può più continuare a rimandare l’urgenza.
Certo, discuterne non significa trovare una soluzione e fare promesse non significa rispettarle, ma se la Cop27 – che, con buone ragioni, passerà alla storia per aver fatto dei diritti umani il carico residuale dell’intera organizzazione – riuscirà almeno a portare una questione così importante al centro della discussione pubblica la si potrà non considerare una completa disfatta.
Virgilia De Cicco