Se con “democrazia” s’intende la «forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico», allora non è errato pensare che la democrazia in Italia sia morta. Riversa sull’asfalto nero, calpestata da più passanti, schernita da chi immobile l’osserva, la democrazia appare esanime agli occhi attoniti di quei cittadini affrancati dall’oblio.
A madame Histoire si può recriminare tutto eccetto l’assenza di ironia: è difatti decisamente ironico che a stroncare definitivamente la democrazia del XXI secolo italiano, rinsaldando il pensiero sopraddetto, sia proprio un istituto generalmente considerato “strumento di democrazia diretta” come un referendum – e non un referendum qualsiasi, ma uno costituzionale, uno importante.
E non la stroncherà perché, come dicono i sostenitori del No, opera un rimpasto senza precedenti né perché priva le Regioni di troppe autonomie: la stroncherà perché la campagna mediatica – lo sponsor – messa in atto dal Governo promotore della riforma ha negato ai cittadini la «partecipazione in piena uguaglianza», zittendo di fatto le opposizioni, e con esse i rappresentanti di tanti italiani, e diffondendo ignoranza storpiando il significato stesso della riforma e del referendum – e come può un qualunque cittadino operare una scelta autonoma su ciò che non conosce?
La riforma costituzionale, benché ad oggi ripulita dagli aloni del personalismo, si sviluppa all’ombra del presidente del Consiglio – o premier, come piace dire a tanti –, nel suo nome e per il bene del suo mandato è stata a lungo sponsorizzata la rivoluzione costituzionale che tutta l’Italia attendeva – quale sia questa Italia non è ancora dato saperlo.
È parso che nel nome di Matteo Renzi e per la solidità del suo Governo, un numero di parlamentari abbia riformato la Costituzione. Che nel nome di Matteo Renzi e per la solidità del suo Governo, gli italiani siano stati chiamati ad approvare questa riforma – o il presidente, così diceva, avrebbe dovuto traslocare altrove le proprie ambizioni.
Con l’evolversi della situazione e alla luce dell’evidente e diffuso malcontento nei confronti dell’operato del Governo in carica, i governanti hanno ipotizzato che dare alla riforma costituzionale il volto di Renzi fosse una mossa sbagliata – un passo falso – e hanno rimediato in fretta e furia proponendo al popolo una novella molto gradevole: alle urne di dicembre non si vota la politica, si vota la Costituzione.
La Costituzione che garantisce democrazia, che garantisce equità, che garantisce tutela. Si vota la Costituzione che contempla sin dall’origine il bicameralismo paritario affinché tutte le idee politiche trovino rappresentanza e a nessuno sia concesso l’abuso, cosicché i diritti, i doveri e le necessità di nessun cittadino restino fuori dall’aula parlamentare. Quella Costituzione che oggi viene revisionata zittendo opposizioni e pareri contrari, quella stessa Costituzione che revisionata in tale contesto infanga la democrazia.
Lecito chiedersi se questa atmosfera dubbiosa, polemica e diffidente sia ad esempio adatta al superamento del discusso bicameralismo paritario – è davvero matura la nostra classe politica?
La risposta, pur peccando di ovvietà, è necessariamente no. Non può essere matura una classe politica frantumata e perennemente in bilico, ostaggio di interessi che di pubblico e cittadino sembrano avere solo l’involucro e non anche la sostanza.
Tuttavia, la novella molto gradevole non ha tutti i torti: a dicembre – sempre che non vi siano nuove sorprese – non siamo chiamati a votare la politica, ma la Costituzione. E la Costituzione, poiché legge fondamentale della nazione, non può essere offesa subendo modifiche in un clima come quello attuale – non è giusto, non è democratico, non è civile.
Non può esistere “la volta buona” quando si discutono revisioni alle fondamenta di uno Stato, non può esistere una campagna referendaria che accusi i partigiani contrari alla riforma di non essere veri partigiani, e ancora non può esistere nel dibattito interno ai partiti un ricatto chiamato “Italicum” come clausola per sostenere o meno le modifiche. Né, in ultimo ma non ultimo, può esistere il baratto: 500 euro in cambio di un Sì?
Questa Carta, che non è straccia, è pur sempre la Costituzione e in quanto tale merita un’attenzione e un rispetto maggiori di quelli dimostrati sino ad ora, ragione per cui appare complesso evitare di votare no – no per le ragioni di quella democrazia che ancora contempla il dialogo con ogni rappresentanza politica, che ancora serba in sé il concetto, invero sbiadito, di rispetto per ogni ragione e proposta che non leda i diritti civili né umani: no, in ultimo, per sottolineare come strumentalizzare ignoranza e speranze non possa produrre nulla che sia positivo. O, rivisitando una nota canzone, dovremmo ammettere che tra gli odi di partito la democrazia è effettivamente morta – tra un sì, un no e un devo pensarci dubbioso, maschera di inconsapevolezza.
Rosa Ciglio