Invase (loro sì), sterminate ed esiliate ai margini remoti della civiltà, private di ogni bene o possedimento da un progresso famelico che non ammette argini, quindi costrette a scegliere fra l’identità e la sopravvivenza vincolate al giogo di un avido ricatto. Le comunità indigene che abitano il pianeta sono un’atavica reliquia dell’incontaminato, eppure l’immaginario collettivo fa di loro esseri fuori dal tempo, anacronismi viventi, attori sulla scena di un film storico in attesa del ciak finale. Ma il loro retaggio culturale e il loro stile di vita rappresentano gli ultimi baluardi prima dello strapiombo omologante della modernità e della crisi climatica. Sotto questi e diversi altri aspetti gli indigeni e le indigene rappresentano dei veri e propri custodi di Gaia: i guardiani delle nicchie ecologiche ed ecosistemiche ancora non raggiunte dalla devastazione capitalista.
Con tali presupposti ha avuto inizio la campagna “Defend the defenders”, un percorso di otto settimane avviato da Extinction Rebellion, Fridays for Future, Polluters Out e Animal Save con due obiettivi fondamentali: sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di agire in difesa delle comunità indigene e fare pressione sui gruppi politici affinché non si pieghino alla stipula di accordi-cappio che avrebbero come diretta conseguenza l’ulteriore inasprimento della crisi climatica nel pianeta e delle condizioni di vita degli indigeni. La campagna, racconta Anna Magarotto, attivista XR di Verona, è stata condotta prevalentemente online, a colpi di hashtag e tweetstorm, anche a causa delle restrizioni imposte dall’emergenza pandemica. E un primo risultato è stato conseguito: la proposta di legge del governo brasiliano che avrebbe consentito ai land-grabbers (gli accaparratori di terre) di ottenere più facilmente diritti di sfruttamento sull’Amazzonia è stata sospesa. “Amazon is not for Salles” è lo slogan utilizzato per l’occasione, dal cognome del ministro dell’Ambiente brasiliano Ricardo Salles che vanta nel curriculum un’indagine per frode ambientale.
Il fronte della campagna è rivolto adesso a impedire la ratifica dell’accordo commerciale tra Unione Europea e Mercosur, raggiunto nel luglio dello scorso anno dopo oltre vent’anni di negoziati. Il patto, come spiega Edoardo De Stefano, attivista FFF di Torino, favorirebbe l’intensificazione delle monocolture di soia e dei pascoli per la produzione di carne con ridotti standard di qualità, avvantaggiandone l’export verso l’Europa. Diretta conseguenza ne sarebbe un’ulteriore sottrazione legalizzata di terre alle comunità indigene, in un’area peraltro già devastata dai continui incendi e minacciata dall’atteggiamento criminoso e autoritario di Jair Bolsonaro, con buona pace di Gaia e dei suoi custodi. Ma a essere a rischio, è bene sottolinearlo, è l’intera umanità. Come ha scritto Naomi Klein sul Boston Globe del 26 agosto 2019, “la violazione dei diritti degli indigeni, in altri termini, è centrale nella violazione del nostro diritto collettivo a un pianeta abitabile”.
Per fare un esempio, continua Edoardo, potremmo pensare al continente asiatico, dove l’emergere di regimi autoritari come quello di Rodrigo Duterte nelle Filippine e Narendra Modi in India ha contribuito ad acuire la repressione nei confronti degli attivisti e delle attiviste per il clima, favorendo invece la collusione con i grandi inquinatori del comparto energetico. Nepal, Thailandia, Malaysia, Pakistan, Indonesia sono luoghi in cui le comunità indigene e i difensori del pianeta vivono sotto continua minaccia, in un’area sovente piagata da eventi atmosferici estremi e lunghi periodi siccitosi. Nelle Filippine, la tribù dei Lumad è stata messa sotto sfratto dal braccio armato di Duterte per favorire lo sfruttamento dei giacimenti carboniferi e delle risorse boschive dell’area.
Nell’Africa settentrionale e centrale, di contro, più della crisi climatica a incidere sono le conseguenze di secoli di colonialismo e discriminazione razziale. Del resto i profondi intrecci tra giustizia climatica e giustizia sociale sono noti da tempo. E qui gli indigeni e le indigene, relegati in minoranze emarginate dalla società, sono esposti a un saccheggio continuo da parte delle multinazionali, le quali espropriano le comunità nere delle materie prime presenti sul territorio e sfruttano la manodopera locale attraverso il riconoscimento di salari irrisori, amplificando le disuguaglianze e lasciando i nativi e le native privi del diritto a rivendicare uno stile di vita pacifico, salubre e sostenibile per il pianeta. Lì dove Gaia affonda le sue ancestrali radici si consuma la più grave repressione dei diritti umani sotto l’egida di un estrattivismo spietato e incontrollabile, che lascia null’altro che miseria e povertà dietro di sé.
Inoltre, per quanto possa apparire difficile da credere, anche il suolo europeo ospita varie comunità indigene costrette a misurarsi con gli effetti di una crisi climatica non causata da loro: basti pensare alla tribù scandinava dei Sami – comunemente chiamati lapponi – che abita la parte settentrionale della penisola, o ai Nenezi della tundra siberiana, dislocati prevalentemente nella penisola Jamal. Per questi indigeni di origine samoieda la migrazione è una componente fondamentale, e il tempismo nello spostarsi può fare la differenza tra la vita e la morte. Nel 2019 un reportage della fotoetnografa Allegra Ally mostrò come, a causa dei cambiamenti atmosferici causati dal riscaldamento globale, le tribù dei Nenezi siano state costrette a cambiare repentinamente i ritmi delle loro migrazioni per evitare i fenomeni estremi e adattarsi alle mutazioni nei cicli naturali. Se non l’avessero fatto, sarebbero andate incontro alla denutrizione e alla morte.
È bene quindi ricordare, quando si parla di comunità indigene, che non esiste solo l’Amazzonia e che le criticità del sistema capitalistico allarmano l’intero pianeta con i suoi abitanti e le sue abitanti, dagli Aborigeni australiani agli Inuit in Alaska e Groenlandia. Popoli che non hanno respinto acriticamente il progresso e la civiltà, come spesso si suole credere, ma che rivendicano il diritto a condurre il loro stile di vita – diverso, non sbagliato – senza essere travolti e massacrati dal produttivismo neoliberista. Una fragilità che in contesti di crisi tende a frantumare la già debole, ma fiera e coraggiosa, resistenza delle tribù in difesa dei santuari domestici che per noi sono facile profitto, per loro casa. In Ecuador, gli Achuar hanno dato vita a una strenue lotta contro deforestazione, crisi climatica e malattie esogene per salvaguardare la propria eredità. In Brasile, i Tupinamba e gli Arapiun hanno preso parte a un progetto fotografico per mostrare gli effetti della devastazione speculativa sui loro territori. Nei civilissimi Stati Uniti d’America i Navajo sono rimasti privi di risorse idriche a seguito della pandemia da covid-19.
I custodi di Gaia rappresentano un patrimonio di cultura e tradizioni che non può essere cancellato dalle ruspe o per decreto: una visione olistica nell’approcciarsi al rapporto con il pianeta che sarebbe un insegnamento prezioso per superare il canonico dualismo occidentale, spiega Andrea Drago, attivista XR di Roma. Si tratta di miriadi di tribù spesso in rapporti complessi e in alcuni casi conflittuali, come accade fra Bantu e Pigmei nell’Africa subsahariana: le popolazioni che vivono a contatto con il cosiddetto mondo civilizzato sono infatti viste con diffidenza e ostilità da quelle che abitano le aree più interne e isolate. Ma comprenderle, prima ancora che rispettarle e tutelarle, è il viatico per avere accesso a uno scrigno di conoscenze e buone pratiche ambientali utili al nostro stesso benessere. Basti pensare a quante specie di piante medicinali a noi ancora ignote potremmo reperire negli ecosistemi amazzonici. Per questo, conclude Andrea, è fondamentale fermare lo scempio di trattati come quelli tra Unione Europea e Mercosur, e l’impegno dei ribelli e delle ribelli per la vita, attraverso la campagna Defend the Defenders, continua tuttora in quella direzione: presso il Governo italiano, a Bruxelles, in tutte le sedi – istituzionali e non – opportune.
Ma la vergognosa logica del profitto non ha leggi federali, né tantomeno morali, che tengano. In nome del denaro si invade e si usurpa, si ruba e si ammazza senza ritegno. A volte con inusitato orgoglio. A questa visione perversa va opposta un’alternativa netta, radicale. In una recente intervista a La Stampa, Daniel Tanuro ha sottolineato come occorra essere “interessati alla critica delle tecnologie, al parallelismo tra il dominio patriarcale sulle donne e il dominio sulla natura e alle visioni del mondo non coloniali che sono portate avanti dalle comunità indigene”. Il pianeta è un santuario vilipeso. Essere custodi di Gaia è dovere di ogni essere vivente, non un folkloristico retaggio di indigeni e indigene.
Emanuele Tanzilli