Sulla mia pelle è un film orrendo come la realtà.
E questo è uno dei complimenti migliori che si possa fare al film perché racconta l’orrore che si cela nel quotidiano: le prevaricazioni, gli abusi, le ingiustizie, la violenza, la superbia.
Lo è perché racconta uno dei casi di cronaca più tristemente celebri degli ultimi anni: la morte di Stefano Cucchi per mano delle forze dell’ordine.
Lui, un ragazzo semplice, vulnerabile, così come viene dipinto dal regista Alessio Cremonini, con quest’ultimo che non cade nell’errore di farne un eroe o una vittima, anzi, lo descrive colpevole, per la vita che conduce, per le scelte che ha preso, per la sua famiglia, che mette continuamente in imbarazzo attraverso i suoi comportamenti.
Ma il film non si ferma qui, scende in profondità (sarebbe stato uno scandalo il contrario) nella psicologia di Cucchi, e questo grazie a un lavoro fatto probabilmente su chi Stefano l’ha conosciuto per davvero.
Lui era un uomo problematico, bambinone, irresponsabile. Un reietto cresciuto nell’ombra del padre, costretto a misurarsi continuamente col fantasma dell’uomo che sarebbe dovuto essere, quello che il padre avrebbe voluto, quello che la società avrebbe richiesto. Lo Stefano che emerge è un uomo sì semplice, ma anche molto intuitivo e sensibile. Percepisce questo scarto e reagisce con l’unica cosa in cui è bravo: la fuga. Disperato, spaventato, vede questa come unica via di scampo. Una mancata integrazione che spinge automaticamente ai margini, a vivere alle luci fioche dei lampione e nell’oscurità della notte, pericolosa, licenziosa e permissiva.
Ma il punto focale di Sulla mia pelle, dove poi si condensano le difficoltà nella realizzazione, era proprio come raccontare questa storia spinosa, difficile per tanti fattori: per le istituzioni che va a toccare, il processo controverso tutt’oggi ancora in corso, gli strascichi legali e le divisioni d’opinione che ha causato.
Alessio Cremonini, quindi, decide di raccontare il film come avrebbero fatto in molti:
attraverso una storia particolare ma dalla morale universale, attenendosi a quello che giunge dalle testimonianze e romanzando moderatamente la narrazione, non lesinando le sfumature dei personaggi, aggiungendo alla storia anche qualche sua intuizione artistica.
E quindi le forze dell’ordine sono spigolose e aggressive, rudi e antipatiche, propense alla prevaricazione, ma solo alcune, perché l’umanità è così: variegata nelle sue brutture e nelle sue virtù.
Stefano, invece, lo descrive come un ragazzo schiavo di una dipendenza, che ci ricasca, che sa di aver fatto la cazzata, che soffre più dentro che fuori. Lo vediamo quando i poliziotti lo puntano, lo sfidano, e lui cerca di fuggire dallo sguardo supponente di chi lo giudica con gli occhi. Difficile non provare empatia per Stefano Cucchi, il debole, colpevole per se stesso e per gli altri, ma che subisce abusi ingiustificabili e per questo intollerabili.
Soffre lui e lo spettatore con lui man mano che gli eventi scorrono, fatti soprattutto di sofferenza e violenza, psicologica e non.
Ma la violenza non viene sempre mostrata, ma presunta e presagita negli occhi alieni e demoniaci di certi uomini malvagi di cui è pieno il mondo, ahinoi.
Le reazioni di Cucchi invece le vediamo bene: s’indispone e reagisce con quello che sa fare meglio: fuga e rifiuto. Fuga e ancora rifiuto. Da cosa? Dagli ordini dei carabinieri, dai consigli dei medici che cercano di aiutarlo. Lì torna prepotente tutto il suo disagio dello “stare al mondo”, la sua inquietudine e inadeguatezza che poi spiegano la sua devianza. La vergogna.
Sulla mia pelle è una pellicola densa di temi, di narrazione e di concetti. Di realtà.
Ma è anche una riflessione importante sulla solitudine e sul silenzio. La solitudine di Cucchi, abbandonato da tutti e sgravato come una patata bollente da un carcere a un altro, da un’aula di tribunale alle mani dei medici.
E, infine, la congiura del silenzio, perpetrata delle forze delle ordine dopo gli abusi. Quello autoinflitto per paura delle ritorsioni “perché se quelli per dieci anni mi fanno le carte” ci dice il protagonista un passaggio del film. Della famiglia, rassegnata e impossibilitata a comunicare con lui.
In questo silenzio, solo due voci si stagliano. La voce di Stefano Cucchi, una voce nel nulla, che chiede disperatamente le pillole la sua terapia e mostra per la prima volta la sua debolezza. E poi quella profetica, quell’eco celeste del compagno di cella che annuncia ciò che poi accadrà: “che il dolore è mendace, si fa spazio pian piano”.
Quindi sì stiamo parlando di film, che racconta una storia vera, che si basa su testimonianze e posizioni distinte, con tanti punti ancora oggi oscuri. Difficile rimanere sul lato meramente tecnico, perché queste storie travalicano il contenitore (in questo caso televisivo) da cui trasmettono. Sono indiscutibili la regia di Cremonini (la proporzionalità perfetta di alcune inquadrature) la prova di Alessandro Borghi (immenso e forse una delle stelle più luminose del cinema italiano), il dosaggio della narrazione, ma c’è molto di più.
Non sappiamo quanto di vero ci racconti Sulla mia pelle.
Si basa sulle memorie e le memorie spesso sono fallaci, distorte, a volte adorne e stereotipate, da tutte le parti.
Ma la domanda che dovremmo tutti porci è: possono gli errori, per quanto grandi, rendere un uomo oggetto dello Stato e ridurlo alla mercè di chi dovrebbe rappresentarlo?
La risposta è una sola: no.
Enrico Ciccarelli