Ricordate quel breve spot, fatto circolare dal governo dell’Australia qualche anno fa, che mostrava un ufficiale dell’esercito in primo piano e, sullo sfondo, una barca in balia di un mare in tempesta? Per qualche tempo, quella clip è stata il contrassegno della linea politica australiana in materia di immigrazione clandestina, gestione e ricollocamento dei rifugiati.
Siamo nel 2014, in pieno governo Abbott; l’uomo in divisa è Angus Campbell, comandante dell’Operazione Confini Sovrani, lo sfondo è una ritoccatissima burrasca su cui campeggia l’intimidatoria scritta “Non c’è modo. Non farai dell’Australia casa tua“. Nello spot, Campbell si rivolge direttamente a coloro che provano a entrare illegalmente in Australia, scoraggiandone le intenzioni e intimandoli di non sprecare il proprio denaro mettendosi nelle mani degli scafisti. L’OSB (Operation Sovereign Borders), lanciata nel 2013 dopo la vittoria di Tony Abbott alle parlamentari, rappresenta il livello più alto in materia di misure di sicurezza adottate dall’Australian Department of Immigration and Border Protection negli ultimi anni.
Il marchio “tolleranza zero” della campagna anti-immigrazione clandestina australiana fece molta presa sui leader populisti del primo mondo. Sin dalle prime fasi della crisi dei migranti che ha investito l’Europa, l’Australia e il suo “ferreo ma giusto” modello di immigrazione sono diventati, nel vecchio continente, il metro di paragone di politici pressapochisti e di una certa opinione pubblica che indistintamente reclama uguali misure per pesi molto diversi. L’Australia diventa dunque il paese civile, l’esempio da imitare, quel magico posto in cui “se servi resti, se no tanti saluti”, e quella parte di Occidente che tira il sasso e nasconde la mano ha manifestato con fervore la sua attrazione verso questo modello.
Quali sono stati, dunque, i risultati del “modello Australia“? Quale grande lezione è stata impartita al mondo intero? Senza alcun dubbio, molti di noi hanno imparato due paroline di inglese in più: offshore detention.
La dinamica è semplice: tutti i barconi che si trovano nelle vicinanze delle acque territoriali australiane vengono sistematicamente dirottati in centri di detenzione situati su suolo non australiano e i richiedenti asilo che vi vengono tradotti non sanno quanto tempo vi verranno trattenuti. La maggior parte dei rifugiati viene prelevata dalle pattuglie marittime presso Christmas Island, un isolotto sito in mezzo all’Oceano Indiano a 400km dall’isola di Giava (Indonesia) che è politicamente un territorio non autonomo del Commonwealth, per poi essere trasferita altrove; secondo una banale associazione, si è spesso parlato di Christmas Island come di una “Lampedusa australiana“.
I due maggiori centri di detenzione offshore, formalmente OPC (Offshore Processing Centres), si trovano a Nauru e Manus Island. Entrambi gli OPC furono creati nel 2001 nell’ambito della cosiddetta Pacific Solution voluta dal governo Howard, ovvero una manovra di ricollocamento di 400 rifugiati afgani soccorsi da un mercantile norvegese 140km a nord di Christmas Island. I due centri sono attualmente gestiti da Broadspectrum (all’epoca Transfield Services Ltd.), una corporation che si occupa della manutenzione di infrastrutture e che, in questo caso, opera per conto del DIBP australiano (Department of Immigration and Border Protection). Il mantenimento dei soli centri di Nauru e Manus Island costa ai contribuenti australiani 1,2 miliardi AUD l’anno.
Gli OPC australiani sono da molti anni oggetto di aspre critiche a causa dell’alto numero di incidenti, violenze e abusi verificatisi al proprio interno.
Manus è una piccola provincia della Papua Nuova Guinea la cui isola di Los Negros ospita attualmente 854 rifugiati (tutti uomini). Nel 2007, il governo laburista di Kevin Rudd chiuse il centro di detenzione che venne poi riaperto nel 2012 durante il mandato di Julia Gillard. Nel febbraio del 2014 violenti disordini scoppiarono nel centro a causa delle scarse condizioni di sicurezza e un 23enne iraniano richiedente asilo rimase ucciso. Il 26 aprile 2016, la corte suprema di Papua Nuova Guinea ha dichiarato l’OPC di Los Negros Island incostituzionale e dunque illegale. Poco meno di un mese fa, il Primo Ministro papuano Peter O’Neill e il ministro dell’immigrazione australiano Peter Dutton si sono incontrati a Port Moresby e hanno dichiarato l’intenzione di chiudere il centro, rimarcando comunque l’intenzione del governo australiano di non ricollocare nessuno degli oltre 800 rifugiati sul proprio territorio.
Il capitolo più crudo delle vergognose cronache carcerarie australiane riguarda però Nauru.
Nauru è la più piccola repubblica del mondo: con i suoi 21,4 km quadrati di superficie è praticamente un isolotto sperduto nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, estremamente remoto e distante circa 300 km dal lembo di terra più vicino (un’isola di Kiribati). Un tempo Nauru era una delle nazioni più ricche al mondo a causa delle sue ingenti riserve di fosfato; basti pensare che alla fine degli anni ’60 il PIL pro capite dell’isola era secondo solo a quello dell’Arabia Saudita. I rischi di un’economia a trazione unidirezionale si sono poi manifestati negli anni col progressivo esaurirsi del fosfato che, unito a una buona dose di corruzione e dilapidazione delle risorse, ha determinato la totale bancarotta del paese. Oggi Nauru è un paese che vive di espedienti, e uno di questi è rappresentato dal Nauru Regional Processing Centre.
Le ultime stime (giugno 2016) dicono che nell’OPC di Nauru vivono 442 richiedenti asilo: 338 uomini, 55 donne, 49 bambini. Il 77% di essi è composto da rifugiati di guerra con “fondate paure di persecuzione” a cui dovrebbe essere, per legge, garantita protezione. Il governo di Nauru ha, però, pattuito che il “soggiorno” di ogni singolo richiedente asilo presso la propria isola non debba superare i cinque anni: da qui la soluzione del governo australiano di dirottare i rifugiati in Cambogia, uno dei paesi più poveri al mondo.
Ma come può la Cambogia fornire asilo ai rifugiati meglio dell’Australia? Quello della “cambodian solution” si è subito rivelato un piano fallimentare ed estremamente costoso: le somme dell’accordo stipulato tra Dutton e il governo cambogiano ammontano a 55 milioni AUD, più altri 15 e mezzo destinati all’IOM (International Organisation for Migration), incaricata di occuparsi fisicamente del dislocamento, in un paese povero, accusato di poca trasparenza in materia di diritti umani, e senza strutture in grado di gestire un programma di emergenza migratoria. Nel corso dell’ultimo anno quei pochi rifugiati che sono arrivati in Cambogia da Nauru sono poi tutti tornati nei propri paesi d’origine: nel marzo scorso l’ultima coppia di rifugiati presente nel paese asiatico ha fatto ritorno in Iran sancendo il definitivo fallimento di una strategia vergognosa secondo la quale un paese del terzo mondo elemosina il lavoro sporco di una nazione ricchissima e “civile”.
Il 10 agosto scorso la copertura mediatica riguardante Nauru ha raggiunto il suo massimo picco: un team di giornalisti australiani del Guardian ha pubblicato i Nauru files, un database di oltre 2,000 rapporti su violazioni dei diritti umani avvenute sull’isola dal maggio 2013 ad ottobre 2015, tutte dettagliatamente classificate per tipologia e ordinate cronologicamente. Il 51,3% degli oltre mille incidenti riportati riguarda minori: 59 casi di abusi sessuali, 30 casi di autolesionismo e 159 casi di tentato autolesionismo.
Nel settembre 2014, una ragazza detenuta nel centro si cucì le labbra in segno di protesta e venne ripetutamente schernita dalle guardie carcerarie. Un insegnante impiegato nel centro ha riportato che, nello stesso periodo, la richiesta di una minore di fare una doccia di quattro minuti anziché due fu accolta in cambio di favori sessuali. Ancora, nell’aprile del 2016, durante una visita di alcuni delegati ONU, un rifugiato iraniano di 23 anni, Omid Masoumali, si diede fuoco e morì pochi giorni dopo in seguito alle ustioni; Peter Dutton dichiarò che «se credono che tramite azioni di autolesionismo o lesioni a membri della propria famiglia possano venire in Australia e risiedervi permanentemente, ancora una volta ribadisco il messaggio che non sarà questo il risultato». Il giorno stesso della pubblicazione dei Nauru files, una nota del DIBP ha ribadito che «il governo australiano continua a sostenere il governo di Nauru nel provvedere alla salute, al benessere e alla sicurezza di tutti i rifugiati trasferiti a Nauru».
Ciò che rende ancor più lodevole il lavoro svolto dai giornalisti del Guardian è il fatto che su Nauru viga un’effettiva censura: ai giornalisti stranieri è generalmente vietato l’ingresso sull’isola, un profilo di visto per operatori mediatici è teoricamente richiedibile all’esorbitante costo di 8,000 AUD, ma molte di queste richieste finiscono archiviate e non ricevono alcuna risposta. Il silenzio di stato è stato sancito dall’ultimo Border Force Act, promulgato nel 2015, secondo cui ogni membro dello staff del centro di detenzione che si renda protagonista di “divulgazioni non autorizzate” rischia fino a due anni di carcere.
La linea di condotta dell’Australia in materia di rifugiati e richiedenti asilo è stata ufficialmente condannata dalla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, la quale ha stabilito che la detenzione a tempo indeterminato presso centri tenuti praticamente segreti è illegale e arbitraria. L’ONU ha imputato al governo australiano di non aver mai fornito prove secondo cui i soggetti trattenuti all’interno degli OPC rappresentassero un concreto rischio per la sicurezza nazionale.
Il professor Ben Saul, docente di diritto internazionale all’Università di Sydney, ha dichiarato: «Salvo torture o esecuzioni, la detenzione a tempo indeterminato è quanto di peggio si possa fare a una persona per legge internazionale sui diritti umani. Queste persone non sono state trovate colpevoli di nulla. Nessuna prova che abbiano infranto alcuna legge è stata fornita. Richiedere asilo non è illegale. Illegale è imprigionare dei richiedenti asilo indefinitamente».
Articolo e foto di Cristiano Capuano