Riforma della giustizia

La già famigerata riforma costituzionale della giustizia, che lo scorso 16 gennaio ha ricevuto la prima approvazione alla Camera dei Deputati, nonostante le innumerevoli contestazioni e proteste, ha sinora avuto solo un merito. Sembra infatti aver messo d’accordo l’intera magistratura, che mai come stavolta sembra essersi compattata ed aver messo da parte le varie correnti che da sempre la caratterizzano.

In effetti, sembra proprio che sia la volontà di eliminare queste correnti, più che quella di migliorare il sistema giudiziario nel complesso, uno dei motivi per cui il governo ha deciso di intraprendere la strada della riforma, sulla falsariga delle note ed annose “battaglie” portate avanti da Silvio Berlusconi contro i “giudici di sinistra”, poi tradottesi in leggi ad personam per scampare a processi ed inchieste che lo coinvolgevano.

In principio, fu lo stesso Berlusconi a mettere per la prima volta concretamente sul tavolo la proposta che oggi rappresenta il fulcro della riforma della giustizia: la separazione delle carriere dei magistrati, vale a dire il divieto del passaggio di funzioni da pubblico ministero a giudice – e viceversa – nel corso della carriera di magistrato. La ratio sottostante starebbe nel fatto che un pubblico ministero, nonostante sia anch’egli un magistrato che esercita l’azione penale e conduce le indagini, sarebbe caratterizzato da una mentalità ed un approccio troppo inquisitorio per poter poi essere in grado di esercitare la funzione di magistrato giudicante che pronuncia le sentenze, caratterizzata da maggiore terzietà.

Al di là della fondatezza o meno di una tale posizione, che pur potrebbe avere una sua plausibilità, ciò che desta preoccupazione è il fine ultimo della riforma, che può essere rintracciato nelle dichiarazioni del ministro Carlo Nordio sul punto, il quale ha affermato che oggi i PM “inventano inchieste che finiscono nel nulla ed hanno un potere immenso senza responsabilità”. Ciò lascia intendere che le reali intenzioni del governo siano altre. Non si può infatti non notare, nelle parole del promotore della riforma, un desiderio di indebolimento, di controllo e di responsabilizzazione dei poteri e della figura del pubblico ministero.

Tali intenzioni trovano la loro conferma nel resto del testo di riforma costituzionale, che effettivamente prevede anche lo sdoppiamento di quello che oggi è l’unico organo di autogoverno dell’intera magistratura, il CSM. Per l’appunto, la separazione delle carriere porterebbe con sé anche la creazione di un ulteriore organo di autogoverno, che riguarderebbe esclusivamente i pubblici ministeri e che, peraltro, verrebbe eletto con un metodo molto diverso da quello attuale. Un metodo basato sul sorteggio e volto ad eliminare l’influenza delle correnti, ma che, da un lato, esclude qualsiasi principio meritocratico per quanto riguarda la nomina dei membri togati, affidando alla sorte, e non alla riconosciuta e rinomata competenza, l’ascesa verso le posizioni alte della magistratura, e dall’altro va in contrasto con il principio di sovranità popolare nella parte in cui elimina la nomina da parte del Parlamento dei membri laici.

Ma se si può dire che Berlusconi avesse a cuore la riforma della giustizia principalmente per motivi personali, lo stesso non si può certamente dire per il ministro Nordio, né per nessun altro membro del governo in carica. Né si può dire che la riforma sia giustificata sulla base di dati statistici, dal momento che, in media, il passaggio di funzioni su tutto il territorio nazionale è dello 0,2%, e che, peraltro, la legge attuale già limita fortemente il passaggio di carriere, limitandolo ad uno soltanto, nel corso dei primi nove anni di carriera, ed al di fuori della regione di provenienza.

Il vero scopo della riforma

Ma allora qual è il vero obiettivo che il governo intende raggiungere con questa riforma che obiettivamente non è supportata da nessuna urgenza ed è anzi smentita da dati statistici e da leggi attualmente in vigore?

La verità è che la riforma potrebbe inserirsi in un disegno molto più ampio da parte del governo di arrivare ad una ridefinizione del bilanciamento dei poteri. In particolare, conferendo all’esecutivo facoltà di penetrare sempre più nel giudiziario, potrebbe arrivarsi a mettere in discussione il principio della separazione dei poteri. Oppure, più semplicemente, il disegno potrebbe essere volto meramente a rafforzare sempre di più i poteri dell’esecutivo, specie se il progetto di riforma si legge unitamente a quello sul cosiddetto premierato, fortemente voluto da Giorgia Meloni.

Interessante è anche l’analisi degli strumenti comunicativi utilizzati dal governo per sponsorizzare, anche indirettamente, questa riforma. Da ormai mesi assistiamo quotidianamente ad attacchi spropositati e a volte insensati alla magistratura da parte di membri del governo. Attacchi che, nonostante si collochino nel contesto di vicende molto più complesse e dettagliate, finiscono quasi sempre per ridursi all’utilizzo di frasi ed espressioni volte a suscitare nei cittadini un generale senso di sfiducia nella magistratura. Basti pensare alla vicenda Open Arms, a quella sui migranti in Albania, o al più recente caso Almasri, dove abbiamo assistito a scellerati teatrini politici su vicende molto delicate che hanno coinvolto anche la vita delle persone. Per l’appunto, occasioni come queste sono state utilizzate come pretesti, o meglio come perfetti sponsor della riforma, aventi la finalità di trasmettere il messaggio che la magistratura non lavora bene, è corrotta e va riformata.

Infatti, più che il vero contenuto della riforma e dei suoi tecnicismi e, soprattutto, le sue pericolose implicazioni, ciò che arriva al cittadino medio è il messaggio più semplice, quello dell’inadeguatezza della magistratura. Un messaggio che, col tempo, potrebbe condurre alla totale delegittimazione popolare e mediatica del potere giudiziario, con il grosso rischio, forse già attuale, che un avviso di garanzia, o addirittura una sentenza, diventi carta straccia e resti solo nero su bianco senza nessuna esecuzione pratica.

Ecco perché probabilmente, nell’ottica del governo, farebbe molto più comodo assoggettare i pubblici ministeri ad un organo separato di autogoverno, improntato ad una logica gerarchica dove il pm potrebbe diventare nient’altro che un mero esecutore di direttive e di indicazioni del governo. In tal modo, l’esecutivo non incontrerebbe troppe difficoltà ad intervenire ed ordinare, ad esempio, di prediligere l’esercizio dell’azione penale per determinati reati, con la conseguenza che la giustizia potrebbe essere concretamente garantita solo per alcuni.

Potenziali impatti della riforma

Insomma, oltre all’evidente impatto negativo sull’indipendenza e l’autonomia della magistratura, la riforma sembra poter avere effetti negativi direttamente sui cittadini e sull’amministrazione della giustizia in generale. Un pubblico ministero sotto le direttive di un esecutivo potrebbe sortire esattamente quell’effetto citato dallo stesso Nordio, e cioè la creazione ad hoc di indagini, e una predilezione a portare a processo e ad ottenere la condanna esclusivamente per determinati reati – e magari per determinati imputati. Una deriva che potrebbe trasformare una figura oggi giurisdizionale e rispondente, comunque, a principi di imparzialità, ad una figura di parte, quasi poliziesca o ministeriale.

La strada della riforma è ancora lunga, restano ancora tre passaggi tra le due camere parlamentari. In più, molto probabilmente la riforma passerà per un referendum confermativo, a meno che non venga approvata con una maggioranza schiacciante, circostanza che risulta ad oggi difficile, vista la forte contrarietà dell’opposizione. In quel caso sarà il popolo a pronunciarsi, come peraltro già accaduto nel vicinissimo giugno 2022 quando, chiamati ad esprimere la propria posizione su vari quesiti tra cui, curiosamente, la separazione delle carriere e l’elezione dei membri del CSM, gli italiani preferirono starsene al casa o andarsene al mare, e solo il 20% degli aventi diritto si recò alle urne, con il quorum che non fu di conseguenza raggiunto.

Quest’ultima circostanza dovrebbe già bastare a dimostrare come il tema non sia dei più interessanti per i cittadini, né tantomeno sia percepito come di straordinaria importanza tale da giustificare una riforma costituzionale. A meno che, con video solenni o dichiarazioni toccanti fatte via social, non lo si faccia passare per qualcos’altro.

Amedeo Polichetti

fonte immagine in evidenza: wikimedia commons

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