Locandina Perfect Days
Locandina Perfect Days (fonte: Wikimedia commons)

Perfect Days, film diretto dal regista tedesco Wim Wenders, è la storia di un uomo che vive nel Giappone contemporaneo, ma è fermo all’era dell’analogico e non riesce a comprendere la bellezza del digitale.

Potrebbe essere riassunto con commenti brevi e superficiali:
“È un film in cui non succede niente”.
“È la storia di un giapponese che pulisce i cessi pubblici a Tokyo (cessi incredibili, dove uno potrebbe pure mangiarci tanto son belli e puliti, anzi organizziamo un latrina-tour nipponico, io sono a bordo)”.

Tuttavia, la storia ricorda anche una frase del celebre romanzo di Primo Levi, La chiave a stella:
“Ma io l’anima ce la metto in tutti i lavori, lei lo sa, anche nei più balordi, anzi, con più che sono balordi, tanto più ce la metto. Per me, ogni lavoro che incammino è come un primo amore.

Wim Wenders cerca di scovare qualcosa di più sottile all’interno del tipico clima orientale. Per poter apprezzare appieno la sua opera, non bisogna aspettarsi una storia dai classici canoni con inizio, sviluppo e fine. In realtà, si tratta di un film scandito da ritmi precisi, regolati da mattina, pomeriggio, sera e sogno, che ricominciano in modo ciclico. Possono sembrare opprimenti nella prima mezz’ora, ma poi diventano l’equivalente dei video ambient con rumori bianchi in sottofondo. E poco cambia durante le due ore di visione.

Perfect Days è una sorta di contraltare orientale al Paterson di Jim Jarmusch. Lo stile di Wenders può essere considerato anche legato alle poesie minimaliste e sfrondate di ogni sovrastruttura complessa dello statunitense William Carlos Williams. Wenders prova ad esprimersi “lavorando di sottrazione”, utilizzando quel linguaggio che, secondo Roland Barthes, era negato agli occidentali ma anche l’unico capace di descrivere come ogni secondo avvenisse qualcosa in Giappone su scala infinitesimale: quello degli haiku.

Yakusho Koji al Red Carpet del Tokyo International Film Festival (fonte: Wikimedia Commons)


Perfect Days è di sicuro un film furbo e, quando prova ad “haikuzzare”, si nota che il giapponese non è dietro la macchina da presa ma davanti. Tuttavia, è anche un film coerente con la storia di Wenders, una vecchia volpe tedesca dotata di talento e furbizia da quando riprendeva Nick Cave cantare nei club berlinesi immaginando degli angeli in città o Harry Dean Stanton vagare nei deserti tra USA e Messico per ricomporre una famiglia prima di lasciarla di nuovo, rendendo patetico, commovente e quasi eroico un marito che per gelosia aveva incatenato la moglie fino a costringerla a scappare. I protagonisti dei film di Wenders sono ideali di purezza redenta anche quando hanno un passato di cui intravediamo solo dei (possibili) lati infernali, o di abuso. Non sono scritti e ripresi per essere detestabili, ma si fondono con l’immagine pura che Wenders adora, cerca e feticizza. Ma se a questa ricerca naif di purezza assoluta non ci si abbandona, si rischia di vedere solo i lati negativi e non apprezzare quel po’ di positivo. Se gli ultimi film di Wenders sembravano tutti un fallimento, qui sembra aver ritrovato uno sguardo all’altezza del proprio talento.

C’è dunque un dialogo a distanza spaziotemporale con il cinema precedente di Wenders, con occhio di riguardo su “Tokyo-Ga”, documentario del 1985 dove Wenders andava proprio in Giappone sulle tracce di Yasujiro Ozu per comprendere come quel regista di cinema avesse distillato le proprie immagini alchemiche fatte di una semplicità zen (altra frase da discount orientaleggiante), di una calma riflessiva (e questa è una banalità occidentale) e di storie di vita quotidiana in una società giapponese che stava cambiando radicalmente per diventare qualcosa di diverso.

L’ideale wendersiano dopo l’epopea on the road di “Fino alla fine del mondo” sembra essersi assottigliato negli scopi laddove prima raccontava l’immagine sfruttando tutto ciò che di patinato poteva avere un certo tipo di citazione musicale o visuale per un certo tipo di pubblico. Gli U2 all’epoca già erano abbastanza bolliti per molti ma tiravano commercialmente, oggi ripescare personaggi come Lou Reed e Nico è un’operazione molto “facilona” ma già d’archivio. E il protagonista di Perfect Days è una persona che per la società odierna è in effetti già archiviato: Hirayama è un uomo del passato – sconosciuto per gli spettatori -, che fa un lavoro umile in una nazione dove il prestigio sociale è dato soprattutto dal proprio posto sulla scala lavorativa.

Hirayama ha trovato la propria dimensione ideale in una nazione, il Giappone, in cui esiste un termine per definire la morte per troppo lavoro: karoshi. Ha regolato i propri ritmi biologici a una esistenza semplice dove fa (bene) un lavoro che per molti sarebbe inaccettabile, cioè pulire delle toilette. Il film mostra scorci della sua vita, dei suoi conoscenti, dei libri che legge, persino della sua famiglia, ma sempre con il garbo di non entrare a gamba troppo tesa in questa esistenza, restando sulla superficie delle cose.

In questo percorso esistenziale le nevrosi non sono presenti né accettabili: Hirayama fotografa ogni giorno le fronde degli alberi in un parco dove va a pranzare prima di ricominciare il turno pomeridiano, poi ogni giorno libero va a far sviluppare le foto, le porta a casa e decide quali conservare in uno scatolone e quali invece scartare. Questo atteggiamento equilibrato e quasi analitico è ben diverso da accumulatori compulsivi come Carlo Emilio Gadda, che invece conservava tutto, dai biglietti del tram agli scontrini del ristorante, e che su una vicenda come quella di Perfect Days avrebbe costruito una narrazione che sarebbe stata un groviglio, senza possibilità di venirne a capo, ma con effetti pirotecnici incredibili.

Per Wim Wenders no: il mondo è quello che si vede. Diventa più comprensibile il motivo per cui grandi autori di cinema a un certo punto della loro carriera decidano di andarsene in Giappone per cercare un’immagine depurata e “superficiale”, rischiando anche di incocciare contro il muro della banalità (il penultimo film del grande regista iraniano Abbas Kiarostami, “Qualcuno da amare”, è proprio ambientato in Giappone).

Meno comprensibili sono alcune recensioni o critiche rivolte alla premessa narrativa di Perfect Days, ovvero quelle che considerano inaccettabile, incomprensibile o addirittura poco verosimile l’idea che un uomo possa vivere una vita degna facendo un lavoro umile, per di più se gli piace e lo fa anche bene. Trovano all’interno del film dei messaggi che, in realtà, il regista non lancia mai e infine prendendola, se capita, sul personale. Sono riflessi di una cultura frustrata del lavoro; gran parte del mondo occidentale mal digerisce l’idea che determinati tipi di mestieri possano essere vissuti senza costruirci sopra una rivoluzione marxista, un trattato sociologico o un dramma.

A questo punto bisognerebbe non tanto rivedersi il film, ma rispolverare un romanzo meno conosciuto di Primo Levi, La chiave a stella, in cui l’autore, nonostante abbia attraversato il periodo della schiavitù nei lager, predica la bellezza e la dignità del lavoro, soprattutto quello meno visibile di chi, come l’operaio Faussone (protagonista del romanzo), va in giro per il mondo a mettere su gru, ponti o tralicci. Si può pensare che montare impianti petroliferi è un’avventura ben più interessante di pulire dei bagni ma, alla fine, tutto sta a seconda di come la si vede.

Nicola Laurenza

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