Achille Mbembe ha teorizzato una definizione lapidaria del termine necropolitica in quanto espressione ultima della sovranità, ossia quel potere che si condensa nella capacità di decidere arbitrariamente chi può vivere e chi deve perire. Quindi, due possibilità apparentemente antitetiche – uccidere o consentire di vivere – stabiliscono i limiti di tale sovranità. Il controllo diviene l’elemento fondamentale della contemporaneità globalizzata e di conseguenza l’esercizio del potere si dispiega nell’ottica del controllo totale della vita: ciò è quanto Foucault ha indicato come bio-potere.
Dunque, tra necropolitica e bio-potere sussiste un rapporto inscindibile: entrambi si collocano in quell’ambito politico in cui si verifica l’utilizzo sistematico e strumentale dell’esistenza umana e la devastazione materiale delle popolazioni e dei corpi. In tali istanze il potere (non esclusivamente il potere di Stato) si appella costantemente all’eccezione, all’emergenza e a un’immagine ben costruita seppur fittizia di un nemico. Le pratiche sovrane che incarnano una visione necropolitica si compiono in relazione alla sfera economico-sociale e biologica, su ciò impongono l’inappellabile diritto di decidere e, inevitabilmente, stabiliscono la suddivisione delle specie umane in gruppi e della popolazione in sotto-gruppi. Tale cesura biologico-sociale fra gli uni e gli altri è identificabile con il fenomeno del razzismo.
Il concetto politico di razza è stato uno spettro onnipresente nel pensiero e nella prassi dell’Occidente, soprattutto nella legittimazione del violento dominio sui popoli stranieri: imperialismo coloniale. La politica della razza è inestricabilmente legata alla politica della morte. Infatti, nell’accezione necropolitica del bio-potere la funzione della razza e della classe sociale è quella di regolare la distribuzione della morte e di rendere realizzabili le funzioni omicide dello Stato. In tal caso la percezione dell’Altro culmina nella rappresentazione d’una minaccia letale, la cui soppressione fisica rafforzerebbe la sicurezza individuale e statale in quanto immaginario vitale della sovranità stessa. L’oppressione sociale che ne consegue pone in evidenza la necessità della subordinazione d’ogni elemento umano, e non solo, a una logica impersonale, calcolatrice e strumentale.
Sotto l’egida della civilizzazione ragione e terrore si sovrappongono.
La radice storica dell’ascesa del bio-potere è riscontrabile nella schiavitù-merce su base razziale a partire dal VII secolo di matrice arabo–islamica e dal XVI secolo di matrice europea. L’umanità dello schiavo appare come la raffigurazione plastica d’un fantasma. Infatti tale condizione comporta una triplice spoliazione: la perdita d’una «casa», la perdita dei diritti sul proprio corpo e la perdita dello status politico. L’esistenza d’una persona si dissolve di fronte al «potere sulla vita» al di fuori della legge esercitato da un altro, e assume la forma d’un oggetto del commercio.
Lo schiavo appartiene a un padrone, ha un prezzo in quanto strumento di produzione e ha un valore in quanto proprietà. La sua cruenta morte-in-vita permanente è l’apice della necropolitica. Il colonialismo e i regimi di apartheid s’instaurano nel terrore, nella repressione e sul concetto di razza. La guerra coloniale è l’espressione dell’ostilità assoluta del conquistatore contro un nemico assoluto definito selvaggio. In tal caso la necropolitica riflette la ragione strumentale d’uno «stato d’eccezione» inumano e carnefice.
Scrisse B. de Sousa Santos: «Il colonialismo fu la prima grande pandemia della modernità, e non abbiamo ancora trovato il vaccino».
Dunque, l’esercizio della sovranità implica l’occupazione e il controllo, la marginalizzazione dei colonizzati in una zona intermedia tra lo status di «soggetto» e lo status di «oggetto». Bio-potere e necropolitica: «potere di morte».
Necropolitica e razzismo negli USA e in Israele
Il potere è già in sé la sua stessa trasgressione, nega necessariamente le sue stesse norme pur di perdurare. Da qui deriva il suo «crimine costitutivo»; al contempo tali atti, però, devono rimanere invisibili affinché il potere stesso funzioni normalmente.
L’assassinio poliziesco per soffocamento di G. Floyd avvenuto a Minneapolis il 26 maggio è una delle molteplici manifestazioni di necropolitica del potere. Negli USA la popolazione afroamericana è una delle principali vittime d’un sistema di potere iniquo e mortifero, nonostante l’opulenta società civile bianca trionfante agiti la bandiera della libertà e della lotta alle cosiddette «dittature socialiste». Il rampante capitalismo americano è essenzialmente un regime oligarchico fondato sul saccheggio di risorse umane e naturali e su un razzismo/classismo istituzionalizzato.
Gli abusi razziali e la repressione sociale sono molto frequenti, infatti nella terra delle opportunità gli arresti sono 3.251 per ogni 100 mila abitanti e v’è il più alto tasso di persone carcerate al mondo: più di 2 milioni e il 40% è di origini afroamericane. Percentuali spaventose che implicano un sistema penale strutturato sulla coercizione (rule by force) non sulla legge (rule of law). Del resto la (anti)democrazia americana s’erge sul genocidio dei nativi e sullo schiavismo.
Dunque, la ghettizzazione sociale e la criminalizzazione morale e legale delle minoranze etniche, il gap salariale tra neri e bianchi e la totale assenza di sovranità popolare mettono in crisi una società imbevuta di retaggi culturali colonialistici, di ideali consumistici ed elitari, a sua volta fortemente alimentata da una anarchica e violenta economia di mercato che riproduce rapporti socio-economici precarizzanti e razzializzati.
Sulla stesso piano dal 1948, il più compiuto esempio di combinazione tra potere disciplinare e necropolitica è Israele. L’occupazione coloniale – striscia di Gaza e West Bank – a detrimento dei palestinesi si legittima attraverso un presunto fondamento divino dello Stato. Tale diritto divino comporta una segregazione sul modello dell’apartheid, o peggio, un vero e proprio Olocausto. Una delle tecniche adoperate da Israele è quella del bulldozing: demolizione di case, d’intere città, infrastrutture e reti di comunicazione, distruzione di risorse, bombardamenti, saccheggio dei simboli culturali e politici.
I villaggi assediati sono isolati dal resto del mondo e le istituzioni civili vengono sistematicamente represse. La vita quotidiana dei palestinesi è militarizzata e le uccisioni invisibili si aggiungono alle esecuzioni extragiudiziarie. Quindi il bio-potere coloniale esercita un dominio assoluto sugli abitanti del territorio occupato. Israele si avvale in realtà d’un unico diritto: il diritto d’uccidere.
Vivere sotto un regime di polizia razzista o d’occupazione coloniale nella post-modernità equivale a esperire una condizione permanente di dolore, vessazione, umiliazione e neutralizzazione. Un’esperienza d’assenza di libertà. Morte e libertà sono indissolubilmente legate: infatti se l’assenza di libertà è l’essenza esistenziale dello schiavo salariato e del colonizzato, è attraverso questa medesima assenza che costoro conferiscono valore alla propria mortalità. La possibilità imperitura della morte – in opposizione alla necropolitica – è lo spazio dove operano il contro-potere e la libertà.
Lo scrittore afroamericano J. Baldwin scrisse una lettera per suo nipote James – introdotta poi nel suo libro La prossima volta il fuoco – che recita:
«Sii consapevole delle tue origini: se sai da dove vieni, potrai arrivare dovunque. Perciò ti scongiuro di ricordarti sempre che ciò che i bianchi credono, ciò che fanno e le sofferenze che ti procurano, non testimoniano la tua inferiorità, bensì la loro disumanità e paura. E ti prego anche, mio caro James, di conservare la tua lucidità pure nel pieno della tempesta che oggi infuria nella tua giovane mente: sii lucido di fronte alla realtà che le parole ‘‘accettazione’’ e ‘‘integrazione’’ celano. Non c’è alcun motivo per cui tu debba cercare di diventare uguale ai bianchi, come non c’è giustificazione plausibile alla sfacciata pretesa che siano loro ad accettarti. Il fatto veramente mostruoso è che invece sei tu che devi accettare loro. […] Quegli uomini sono tuoi fratelli, i tuoi perduti fratelli minori. […] Tu discendi da una stirpe forte e contadina, da uomini che raccolsero cotone, arginarono fiumi, costruirono ferrovie e, alla mercé delle più spaventose circostanze, raggiunsero una dignità inoppugnabile e monumentale. […] Uno di loro ha detto: ‘‘Quando credevo d’esser perduto/la mia prigione tremò e caddero le catene’’. […] Noi non saremo liberi fino a quando gli altri non lo saranno».
Black Lives Matter! Palestinian Lives Matter!
Gianmario Sabini