Una vittoria storica e una sconfitta altrettanto storica. In due parole, un’analisi ineccepibile dei fatti che determina una svolta nella politica del Regno Unito. Per comprendere la portata della disfatta dei Tories alle ultime elezioni del Regno Unito, basterebbe ascoltare le parole dell’ex primo ministro Rishi Sunak, il quale è stato abbastanza eloquente nel commentare l’esito del voto, assumendosi la responsabilità della sconfitta e comprendendo il messaggio degli elettori. Quella andata in scena il 4 luglio contro i Labour di Starmer è la più grande sconfitta nella storia dei conservatori britannici.
Soltanto Tony Blair nel 1997 ha fatto meglio con 418 seggi ma ciononostante, la vittoria dei Labour guidati da Keir Starmer è sicuramente di rilievo. Rispetto all’ultima tornata elettorale del 2019, i Labour hanno guadagnato 210 seggi arrivando a toccare quota 412. Al contrario, i conservatori ne perdono 244 e si fermano a 121 seggi. Seguono i liberal-democratici di Ed Davey a 72 seggi, il miglior risultato dalla fondazione del partito. Da segnalare l’elezione, dopo ben otto tentativi, di Nigel Farage, il quale, con il suo partito “Reform Uk” è riuscito ad ottenere 4 milioni di voti e il 14% dei consensi. Un risultato inaspettato e mai raggiunto dalla sua formazione politica precedente, lo UKIP. Tra l’altro, è indubbio che Farage e l’estrema destra abbiano sottratto voti ai conservatori, impedendo a Sunak di essere davvero competitivo.
Il verdetto di queste elezioni del Regno Unito merita un’analisi di ampie vedute. I risultati parlano chiaro: la bocciatura dei Tories è stata netta e incontrovertibile. Ai Labour, però, spetta un grande lavoro dettato dalle elevate aspettative e speranze che l’elettorato inglese ha riposto in loro. I dossier sul tavolo di Starmer e dei Labour non sono pochi: dalla politica interna alle elevate divisioni – anche nella stessa sinistra di governo – in politica estera, passando per la questione sanitaria, con un sistema in netto declino. Ai conservatori di Sunak, invece, spetta una profonda riflessione sullo stato interno del partito.
C’erano una volta i Tories…
Dopo aver collezionato la peggiore sconfitta alle elezioni del Regno Unito da 190 anni a questa parte, cioè dalla sua fondazione, i Tories di Sunak dovranno fare i conti con un partito che, lentamente, è stato logorato da scelte sbagliate, rese dei conti e da una Brexit i cui danni economici, d’immagine e istituzionali non sono mai stati completamente digeriti dall’elettorato.
Dal 2019 in poi, cioè dalle ultime elezioni del Regno Unito, si sono alternati tre primi ministri: Boris Johnson, Liz Truss e Rishi Sunak. Un sintomo di instabilità il quale, però, arriva da lontano. Da problemi irrisolti e da un’agenda che dal 2016 vede i Tories in netta difficoltà sui temi, sui servizi e sulle reali necessità del Regno Unito. Dopo 14 anni ininterrotti al potere, la credibilità dei conservatori è drasticamente scesa in favore di un camaleontismo che ha permesso a taluni soggetti di scalare le gerarchie e diventare ministri soltanto grazie alla fedeltà dimostrata ai leader e al partito. Tale modo di fare ha inesorabilmente inasprito la lotta interna per il potere e ha logorato le varie e molteplici professionalità presenti nei Tories. Una cosa che sicuramente non è passata inosservata.
E poi c’è l’austerità. Una serie di misure che hanno ridotto drasticamente i fondi per sanità, sicurezza e scuola, i cui effetti sono presenti ancora oggi nel Regno Unito. I tagli di David Cameron sono all’origine della Brexit. L’ala destra dei Tories e il neonato “Brexit Party” di Nigel Farage decisero di addossare tutti i mali britannici e tutto ciò che non andava nel Paese all’Unione Europea, ottenendo il referendum. L’ex primo ministro si convinse che tale mossa potesse rafforzare la posizione del Regno Unito nell’UE. Accadde esattamente il contrario.
Otto anni dopo il referendum il PIL del Regno Unito è cresciuto meno rispetto ai Paesi dell’Unione Europea e secondo Bloomberg la Brexit sta costando all’economia britannica centinaia di miliardi di sterline ogni anno. Londra, allora il centro della politica commerciale europea, ha smesso di crescere e lamenta carenza di manodopera. La burocrazia è aumentata: dai controlli doganali all’uscita dal mercato unico europeo. La propaganda alla base del Leave ha lanciato fumo negli occhi ai britannici e il calcolo politico che ha condotto a una delle decisioni più drastiche nella storia della politica internazionale non è valso la candela.
Nel corso degli anni, i Tories hanno più volte cercato di riprendere il controllo su una situazione che, a causa della crisi economica innescata dalla Brexit e dai tagli, è letteralmente sfuggita di mano alla politica. Senza, però, riuscirci. Theresa May coniò uno slogano proprio su questo: “riprenderemo il controllo”, mentre Boris Johnson vinse le elezioni del 2019 con la promessa di portare a termine l’uscita del Regno Unito dall’UE. Nel mentre, il governo britannico cercò ripetutamente di prendere più volte accordi per un’uscita indolore, inasprendo invece la retorica contro l’immigrazione irregolare nel tentativo di trovare un altro nemico per ingrossare le fila della propaganda permanente. Un populismo di governo con un call to action permanente che non farà altro che inasprire anche le posizioni degli elettori.
Tale trasformazione è scritta nero su bianco. Il libro di Liz Truss, ad esempio, parla di una non ben definita “apocalisse” in arrivo sull’Occidente dovuta alla massiccia immigrazione, mentre alcuni dirigenti dei Tories discutono apertamente di un muro sottomarino nel canale della Manica (una riedizione aggiornata del muro al confine tra Messico e Stati Uniti di cui parlava Donald Trump).
L’impressione è che la strada verso la radicalizzazione delle posizioni politiche sia senza uscita. Le posizioni intransigenti, xenofobe e razziste, unite agli scandali (dal Partygate di Johnson alle scommesse con Sunak) hanno leso l’immagine dei Tories, i quali in questa campagna elettorale hanno fatto molta fatica sia a trovare temi in grado di suscitare l’interesse e l’entusiasmo dell’elettorato – basti pensare alla proposta di reintrodurre il servizio militare, non proprio il massimo mentre nel mondo infuria la guerra – sia a distinguersi dall’estrema destra di Farage, che sull’immigrazione è ancora più ostile rispetto ai conservatori.
Dall’opposizione, visti i presupposti, sarà difficile ricostruire un partito che, da 14 anni a questa parte, ha solamente pensato al miglior modo di conservare il potere. E sul da farsi, anche gli elettori sono indecisi se continuare sulla strada del nazionalismo o tornare a più miti consigli. Una scelta difficile, da cui dipende il destino della compagine di Sunak.
Starmer, i Labour e un Paese da ricostruire
A grandi vittorie corrispondono grandi responsabilità, con una frase tutto il lavoro che attenderà Starmer e i Labour dopo ben 14 anni di opposizione. La fase più delicata inizia ora, con il governo che si insedierà ufficialmente il prossimo 18 luglio. La situazione è complicata e le aspettative dei cittadini sono molto alte.
I temi sul tavolo sono molteplici: dalla sanità ai salari, passando per l’immigrazione e la politica estera. In campagna elettorale Starmer ha detto che ricostruirà il Regno Unito “mattone dopo mattone”, un modo per dire che la ricostruzione sarà lunga e senza colpi di scena. A cominciare dall’Unione Europea, con cui il leader dei Labour vorrebbe riprendere un dialogo basato esclusivamente sul commercio. Alcuni grattacapi potrebbero arrivare invece in politica estera, dove sembrerebbe esistere una continuità con i Tories. Nei mesi scorsi più volte Starmer ha parlato di Gaza e Israele, insistendo una volta sul diritto degli israeliani di bloccare acqua ed elettricità ai palestinesi.
A preoccupare realmente gli inglesi è, però, il sistema sanitario. Per Starmer non servono nuovi finanziamenti bensì una riforma totale per ridurre le liste d’attesa che oggi costano le cure a circa 7,5 milioni di inglesi. Nuove assunzioni e aumento delle retribuzioni per il servizio notturno sembrerebbero essere le due strade che il nuovo governo vorrebbe intraprendere. Sull’immigrazione, invece, i cambiamenti saranno più radicali ma con il comune obiettivo di procedere ai rimpatri degli irregolari e aumentare i controlli con la nascita di una “polizia di frontiera” per scongiurare eventuali minacce al confine.
L’economia, invece, sarà la vera sfida per il Regno Unito di Starmer. Le ricette economiche dei Tories non hanno funzionato e le risorse per rilanciare un Paese che cresce poco sono insufficienti. Tre milioni di disoccupati, quasi 7 milioni di inglesi accedono ai sussidi e con la Brexit la crescita dei posti di lavoro si è dimezzata: sono numeri terrificanti di un’economia che annaspa. I Labour hanno promesso che non ci saranno nuove tasse ma hanno anche assicurato il raggiungimento del salario minimo, la costruzione di nuovi asili e scuole primarie in cui fornire colazioni gratuite ai bambini delle famiglie povere e la rivalutazione delle pensioni. Tutti programmi costosi che richiedono, appunto, risorse adeguate.
Le sfide non mancano. Dopo Sunak, ora Starmer è chiamato ad essere l’uomo della provvidenza. Non sarà facile e i rischi sono innumerevoli. D’altronde, come i Tories insegnano, da una grande vittoria a un cocente sconfitta il passo è breve e tutto transita attraverso le scelte che la politica è chiamata a prendere.
Donatello D’Andrea