Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia di Enrico Macioci è un romanzo giallo ambientato nel 1981, quando il mondo «non era diverso rispetto al mondo d’oggi, era proprio un altro. Diverso non rende l’idea perché non parlo di gradazioni, parlo di natura. […] Da allora sono successe troppe cose troppo in fretta, e se ficchi troppe cose in un lasso di tempo troppo breve il tempo si sfonda. Noi ci sfondiamo». Macioci (L’Aquila, 1975) è già autore di Terremoto (Terre di mezzo, 2010), La dissoluzione familiare (Indiana, 2012), Breve storia del talento (Mondadori, 2015), Lettere d’amore allo yeti (Mondadori, 2017) e Tommaso e l’algebra del destino (SEM, 2020); Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia, pubblicato da Terrarossa Edizioni lo scorso 28 aprile, è il suo ultimo romanzo.
Come nota Simon Reynolds nelle pagine iniziali di Retromania, è stato sul finire dell’Ottocento che la nostalgia ha assunto un significato temporale – non più solo geografico – complici l’accresciuta facilità degli spostamenti fisici e l’accelerazione delle trasformazioni economiche, tecnologiche e socioculturali. Il mondo cominciava ad alterarsi profondamente nel corso di una sola vita umana: si poteva nutrire nostalgia per il proprio passato personale, come se si fosse compiuto su un pianeta diverso. Il “dolore per il ritorno” si era trasformato in un dramma collettivo e incurabile. Il romanzo di Macioci si raccoglie attorno a questo scarto, all’irrecuperabilità di un’epoca, al rapido precipitare dell’infanzia nella maturità. Un filo teso che si consuma, la trama precipita vertiginosamente, come l’infanzia del piccolo Francesco. In quest’opera dalle forti tonalità emotive, la scomparsa del migliore amico di Francesco e le indagini del caso si svolgono in parallelo ai tentativi, raccontati in diretta televisiva, di recuperare Alfredo Rampi dal pozzo artesiano in cui precipitò la sera del 10 giugno 1981.
C’è qualcosa di profondamente doloroso nel congedarsi dall’infanzia. Si può dire, forse, che la giovinezza sia costantemente attanagliata dallo spettro della sua estinzione: è una condizione pericolosa – etimologicamente – perché si esprime nelle sue rischiose sperimentazioni, nella curiosità viva che finisce per annientarla. Gli adulti dimenticano di essere stati bambini; dimenticano il mondo ancora intatto che si srotola davanti agli occhi infantili, e la sua indiscriminata accoglienza. In Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia, Enrico Macioci ha dimostrato di non averlo dimenticato. A raccontare è Francesco adulto, ma lo fa adeguandosi al punto di vista del sé bambino; la sua infanzia, corrompendosi, fa tutt’uno con la malinconia: il dolore di una perdita e la dolcezza di quel che si è perduto. È sotto questa forma che, spesso, il ricordo dell’infanzia sopravvive. Non è un caso che l’immersione del narratore nella storia sia accompagnata da una premessa: leggeremo solo quel che egli crede di ricordare; perché Francesco si sottopone, nello spazio del racconto, a un esercizio impossibile: si trasforma nel bambino che è stato e ci rende testimoni degli eventi che hanno fatto in modo che quel bambino non esistesse più. Ritorna bambino, al prezzo di guardare nell’abisso – la stanza buia – e recuperare la rottura che ha disgregato il suo mondo. È per questo che l’amicizia con Christian Crèoli gli sembra essere l’unica che abbia mai avuto e che l’odore dell’erba tagliata non può non conservare una nota struggente: lo riporta «all’estrema giovinezza e all’estrema gioia – e alla loro estrema brevità». È questa vena estrema dell’infanzia a inorridire i più grandi: i desideri dei bambini, così imbarazzanti nella loro sfrenatezza. Quando l’ispettore interroga Francesco e lui gli rivela del progetto – suo e di Christian – di incontrare gli alieni, i genitori sospirano “fra disappunto e condiscendenza”: un gesto imperdonabile. In un paio di righe, Macioci coglie l’immensità spiazzante dell’infanzia e l’ipocrisia di chi si è sforzato di dimenticarla.
La narrazione di Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia mette a fuoco i primi contatti di Francesco con il mondo degli adulti. La scomparsa del suo migliore amico lo espone, a soli sei anni, a tutte le fragilità dei genitori, dei vicini di casa, degli agenti di polizia. Pagina dopo pagina vediamo frantumarsi la loro invincibilità e così la credibilità posticcia che la teneva in piedi. In parallelo, la vicenda di Alfredo Rampi svela la vulnerabilità di un paese intero: di coloro che tentarono invano di salvarlo e degli spettatori che s’illudevano di poter conservare il rigore dei loro anni, l’autorità che di lì a poco, per i loro figli, avrebbero smesso di avere. A poco a poco, il mondo di Francesco si decompone; si scopre vulnerabile, persino alle minacce da cui credeva che gli adulti lo avrebbero indiscutibilmente protetto. Nel cortile di casa, lungo la strada, dietro scuola: crescere è scoprirsi soli, camminare dove i grandi non possono vedere, dove le loro promesse non valgono più. Eppure, perché continuare la farsa? «Non riuscivano nemmeno a rimuovere la tavoletta di soccorso rimasta nel budello, ma lo chiamavano Alfredino. A me suonava fasullo. Se mi fossi trovato laggiù al posto suo e mi avessero chiamato Franceschino mi sarei sentito preso in giro. Chiamarlo Alfredino rendeva il suo dramma più intimo – una tentazione irresistibile». Mentre guarda i suoi genitori fingere di tenere insieme un matrimonio fallito e ostentare una sicurezza che non esiste, Francesco desidererebbe poter tornare indietro. Eppure, il giorno della scomparsa di Christian il balcone di casa era vuoto: proprio quando gli adulti avrebbero dovuto sapere, non hanno assistito, non hanno saputo. Probabilmente – riflette il bambino – erano in casa a guardare la tv. Quella stessa tv che contribuiva a smascherarli agli occhi dei bambini, assottigliandone l’innocenza. Nel saggio Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale (1985), lo studioso Joshua Meyrowitz osserva che l’innocenza infantile non è che il frutto di un accorto isolamento informazionale: nel Medioevo i bambini assistevano ad esecuzioni e atti sessuali; con la successiva riconfigurazione dei rapporti sociali accompagnatasi alla stampa, l’accesso all’informazione cominciò a farsi più elitario. I media elettronici, nella prospettiva di Meyrowitz, invertirebbero il processo, coinvolgendo adulti e bambini in un flusso informazionale condiviso. È difficile mentire a Francesco quando, a cena con i genitori, la diretta televisiva segue il dramma della famiglia Rampi. Il pericolo si insinua tra una forchettata e l’altra e tra i pensieri dei bambini, che sono tanto ostinati nei loro sogni quanto severi nei loro giudizi, nei confronti di adulti che non hanno cura della loro trasformazione, preferendo crederli ignari.
Il mondo raccontato da Macioci in Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia non esiste più. L’accesso all’informazione, oggi, è condiviso da fasce d’età diverse e questo ha alterato le relazioni famigliari, modificato i confini tra una fase e l’altra della vita. È con una punta di moralismo, sembra, che l’autore commenta che «la tecnologia [è] il nostro scongiuro, la scienza la nostra religione. La disgrazia si è mutata in apocalisse, l’apocalisse in quotidianità e il pianeta in un’anfora di urla dementi. Non facciamo che sbranarci sui social, e appena ci stacchiamo dal pc o dallo smartphone è l’incantesimo del televisore a tenderci la sua vecchia, infallibile trappola. Certe volte penso che il mostro sia nato dentro quella scatola dallo spessore sempre minore e dal potere sempre maggiore». L’unica pecca, forse, di un romanzo che mette a nudo le inquietudini di un’età delicata e non teme la vulnerabilità.
Siria Moschella