Il nuovo Coronavirus, originatosi dal focolaio di Wuhan, mantiene da settimane la Cina e il mondo sotto la morsa dell’insicurezza sia sanitaria che socio-economica, mentre la sua pericolosità virale non accenna ad arrestarsi. Eppure, la controversa gestione dell’epidemia da parte delle autorità dovrebbe suscitare innanzitutto riflessioni politiche sul sistema cinese, più che preoccupazioni di ordine sanitario, tra allarmismo ed esagerazioni mediatiche.
Coronavirus, Hong Kong, dazi: non c’è pace per la Cina
Il Coronavirus, da un punto di vista geopolitico, non è una patologia isolata: nell’ultimo lustro la Cina si è infatti imbattuta in ostacoli particolarmente insidiosi percorrendo quella che sembrava essere una strada spianata verso l’ascesa a super-potenza globale.
Dall’elezione di Donald J. Trump alla presidenza degli Stati Uniti, e la conseguente involuzione protezionista in economia, il miracolo cinese ha subito diverse battute d’arresto e un rallentamento generale sempre più significativo, soprattutto a causa dei prodromi di una vera e propria guerra dei dazi agitata e combattuta tra America e gigante asiatico. Dal marzo 2019, la crisi politica di Hong Kong, scaturita dalla controversa legge sull’estradizione, ha provocato partecipatissime proteste di piazza, represse con una certa brutalità. La credibilità e la proiezione internazionale della Cina, e soprattutto la solidità del modello “un paese, due sistemi”, ne sono risultate fortemente compromesse.
Infine l’emergenza sanitaria del Coronavirus, arrivata a lambire tutto il globo ma soprattutto il Paese del dragone, rischia di comprometterne definitivamente l’espansione economica, proprio mentre la “Road and Belt Initiative” (le nuove vie della seta che volevano fare della Cina il perno degli scambi commerciali eurasiatici) si apprestava a decollare.
Non si tratta di un crudele e cinico scherzo del fato (o della volontà divina, o dello zeitgeist, fate voi), quanto piuttosto di una serie di concause che chiamano al banco degli imputati direttamente il modello politico-sociale cinese.
Il sistema Cina, in breve
In cosa consiste, in breve, il sistema politico-istituzionale cinese? la Cina è una repubblica presidenziale. La Costituzione attualmente in vigore riconosce i diritti fondamentali dei cittadini e stabilisce che il Congresso nazionale del popolo, ossia l’organo monocamerale del paese, incarna la volontà del popolo, in quanto promuove e sorveglia l’adozione delle leggi e gestisce la nomina dei funzionari. Tuttavia la rilevanza dell’assemblea e delle tutele fondamentali, così come gli altri contrappesi, è formale più che sostanziale.
Secondo le prescrizioni marxiste-leniniste della dittatura del popolo, il Partito Comunista Cinese (PCC) è l’unica forza politica a cui è riconosciuta agibilità legale, e gestisce di fatto la vita del Paese attraverso le sue strutture interne: controlla l’Esercito di Liberazione Popolare, il potere giudiziario e i mezzi di comunicazione, e tutte le caselle della classe dirigente e delle istituzioni sono occupate da uomini ad esso legati. L’organo apicale del Partito è il Comitato Permanente del Politburo, e la figura di riferimento è il Segretario Generale, non a caso anche Presidente e vertice esecutivo del Paese.
E tuttavia la Cina non è un monolite: la dialettica politica in seno al PCC è composita ed è stata particolarmente vivace, con diverse fazioni a contendersi la leadership. Inoltre a diversi livelli della piramide del potere sono presenti spazi limitati di democrazia o comunque non riconducibile ai semplici arbitri di potere: la procedura di selezione della classe politica nei villaggi (il livello basilare dell’amministrazione) avviene secondo un regolare suffragio universale elettivo, l’ascesa dei candidati ai livelli più alti della politica e dell’amministrazione è meritocratica, secondo la valutazione delle esperienze e dei risultati pregressi, e la democrazia consultiva viene applicata a diversi livelli.
Inoltre la liberalizzazione dell’economia ha comunque comportato l’affermazione di figure sociali e di gruppi di pressione in parte estranei al potere centrale, che pure controlla direttamente o regolamenta una quota consistente dell’economia, in nome della pianificazione e degli obiettivi generali di sviluppo.
Non c’è spazio, in Cina, per i diritti umani: secondo il Comitato per i diritti umani ONU e numerose ONG, come Amnesty International, il Paese viola sistematicamente i diritti fondamentali della persona, silenzia e censura il dissenso e spesso comprime le libertà di movimento, di parola e di religione per ragioni di sicurezza nazionale o sociale o addirittura a tutela dello sviluppo economico (ricompreso dalla dottrina giuridica cinese, unicum mondiale, proprio tra i diritti inalienabili). La situazione si è ulteriormente aggravata con l’ascesa politica del Presidente Xi Jinping, responsabile di un significativo accentramento del potere.
In sintesi, un sistema lontano tanto dalle democrazie occidentali (soprattutto sul piano culturale e del diritto), sia dai tradizionali autoritarismi, anche se certamente illiberale, che plasma una peculiarissima società positivista e del controllo, a maglie aperte.
Trasparenza e indipendenza sono i migliori antidoti al Coronavirus?
La gestione sanitaria del Coronavirus ha evidenziato innanzitutto quanto le lacune da un punto di vista della trasparenza e dell’indipendenza possono influire sulla gestione delle questioni e le contingenze sociali. Il dispositivo sanitario cinese ha dimostrato tutta la sua imponenza ed efficacia nel contrastare l’epidemia: dalle vastissime quarantene di contenimento, alla costruzione fulminea di strutture medico-ricettive, passando per l’incessante lavoro del personale medico e dei virologi, che starebbero già sperimentando un vaccino. Da un punto di vista della profilassi, però, la Cina non si è dimostrata all’altezza di un grande Paese.
L’emblema di questa contraddizione tra alta razionalità scientifica e disfunzione autoritaria è stata la vicenda, arcinota, del medico oftalmologo Li Wenliang: tra i primi a denunciare la diffusione del nuovo coronavirus (il 30 dicembre 2019), è stato preventivamente arrestato per procurato allarme, in seguito liberato e riabilitato ad epidemia confermata, ed infine deceduto per il contagio, per essere celebrato come eroe anche dalle autorità centrali. Come lui, moltissimi altri sono rimasti coinvolti nella censura preventiva e nella brutalità delle autorità nei riguardi della popolazione per la gestione dell’emergenza, suscitando polemiche e proteste, contenute ma numerose.
Non si tratta soltanto di tutela dei diritti umani, indubbiamente calpestati dalla Cina con brutalità e fondamento morale di una sana convivenza civile. Una società complessa come quella cinese non può sostenere agevolmente il carico sempre più gravoso di una gestione centralizzata, nella quale l’agibilità dei corpi intermedi effettivamente indipendenti dalle autorità del Partito Comunista, specie in settori delicati e strategici, non può essere considerata con sospetto e diffidenza.
L’ossessione per il controllo del dissenso si fa compressione della dialettica sociale. E il retaggio sovietico della “ragion di Stato” che soffoca la comunicazione interna ed esterna, visto all’opera ad esempio nel disastro Chernobyl, è insostenibile nella società aperta del mondo globalizzato e può provocare danni materiali, oltre che morali, gravissimi.
La convalescenza cinese
La salute dei modelli politici liberal-democratici (con le relative premesse economiche, sociali e culturali) è abbastanza precaria, e sostiene comunque a fatica la sfide della globalizzazione. Ma neppure il modello centralista e autoritario cinese, che sembrava garantire prosperità e stabilità in una prospettiva socio-politica chiara e vigorosa, appare in grande forma. Non si tratta di convalescenza da Coronavirus, bensì di inefficienze e disfunzioni sistemiche maggiormente significative.
I dirigenti del PCC avranno l’intelligenza politica di comprenderlo e di rimodulare alcuni fondamenti strutturali del sistema Cina? Nel passato recente è già avvenuto: Deng Xiaoping, il leader comunista più influente dopo Mao Zedong, elaborò il peculiare ingresso della Cina nel mercato globale attraverso il “socialismo con caratteristiche cinesi”, generando una crescita economica impetuosa.
Oggi una nuova sfida di portata rivoluzionaria attende il leader Xi Jinping, il cui pensiero è stato annoverato, forse precipitosamente, tra i fondamenti dell’ideologia ufficiale dello Stato, allo stesso livello di Deng: consapevole che non può certo limitarsi alla sola “purga” della dirigenza locale compromessa, egli deve rendersi responsabile di un passaggio ulteriore di “apertura” del sistema politico alla società, caldeggiata ma mai concretizzata anche dai predecessori (come il premier Wen Jiabao).
La crisi del Coronavirus, che poteva essere anticipata e contenuta con meno danni qualora si fosse riconosciuto il ruolo del mondo scientifico, è percepita come grande fonte di insicurezza dalla popolazione, e potrebbe incrinare il rapporto, finora apparentemente quasi simbiotico, tra masse e leadership. Il “sogno cinese”, teleologia politica formulata proprio dal Presidente, così come il futuro della Cina e del mondo, passa anche da qui. Tra «colpirne uno per educarne cento» e «non importa di quale colore sia il gatto, l’importante è che acchiappi il topo».
Luigi Iannone