Con l’avvento della tecnologia, molti antichi mestieri si sono resi man mano superflui seppur abbiano segnato la nostra tradizione e l’immaginario collettivo. Ma il passato non muore mai, resta sempre in qualche modo ancorato al nostro presente e, nella maggior parte delle volte, ad aiutarci a rispolverarlo è proprio il nostro dialetto.
Il napoletano ha accenni di storia ad ogni suo morfema e, tra le pieghe di una tradizione quasi dimenticata, ci denota una quotidianità ormai lontana.
Quella antica routine a Napoli era scandita grazie alla presenza del lampiunaro, un uomo addetto dalla pubblica amministrazione all’accensione dei lampioni e delle luci a gas, per poi spegnerle all’alba. Gli strumenti di lavoro del lampiunaro erano un lungo bastone, alla cui estremità era posta una fiamma o un meccanismo che accendeva il lume a cui veniva avvicinato, e uno stutàle, un altro bastone con all’estremità un cono capovolto che, appoggiato sulla fiamma, la spegneva.
Curiosa è la definizione di quest’ultimo oggetto usato dal lampiunaro che deriva, tramite metonimia, dal dialetto napoletano stutare (spegnere). Non a caso l’etimologia di questi verbi ha una sfumatura diversa rispetto a quella italiana. Infatti accendere deriva dal suo omonimo latino e significa “appiccare il fuoco” o “stimolare\istigare”; mentre spegnere vede la sua etimologia in “ex-pingere”, con ex (prefisso privativo) e pingere (dipingere, illuminare).
In napoletano abbiamo un’etimologia diversa e maggiormente legata al concetto di “avvicinarsi e allontanarsi dal fuoco”. Appicciare trova infatti la sua etimologia da ad-piceare, del quale il lessema deriva da pix (pece), piceus (imbevuto di pece) o da picea (abete resinoso). Di conseguenza il suo significato sarà “avvicinare alla pece e\o alla resina” e quindi il termine sta a sottintendere l’atto di dar fuoco a qualcosa. Stutare, che è la sua azione contraria, non potrà non rispecchiare la sua etimologia in ex-tutare da ex (prefisso di allontanamento) e tutus (sicuro). In questo contesto quindi con “mettere al sicuro” si intende un allontanamento dal fuoco. Abbiamo, con questa analisi semantica, la sensazione che dei termini legati alla luce e al colore si pieghino ad un mondo molto più concreto fatto di azioni e di esigenze quotidiane, proprio l’ambiente napoletano in cui si muove il nostro lampiunaro.
La figura del lampiunaro a Napoli, colui che al chiaro di luna rischiarava le strade, per poi eliminare ogni traccia del suo passaggio, ha sempre avuto una certa aura poetica. Come dimenticare il “lampiunaro” che il Piccolo Principe incontra nel quinto pianeta.
«Forse quest’uomo è veramente assurdo. Però è meno assurdo del re, del vanitoso, dell’uomo d’affari e dell’ubriacone. Almeno il suo lavoro ha un senso. Quando accende il suo lampione, è come se facesse nascere una stella in più, o un fiore. Quando lo spegne addormenta il fiore o la stella. È una bellissima occupazione, ed è veramente utile, perché è bella».
E, senza scomodare la letteratura francese, si può ben affermare che è proprio questa la ricezione del lampiunaro che è giunta fino a noi: quella di un uomo che si aggira tra le strade oscure della vecchia Napoli per darle luce. Più che di una presenza di un lampiunaro si può parlare però quasi di un’assenza, una figura indefinita che serve la comunità e lo fa nell’ombra. In ambito pittorico si nota subito infatti come in primo piano ci siano i lampioni (spenti o accesi) ma mai l’uomo che è dietro alla loro attività. Così, ad esempio, l’impressionista Carlo Brancaccio riesce ad immortalare la Via Toledo ottocentesca bagnata dalla pioggia, piena di passanti e contornata dai lampioni.
Non esiste però solo una ricezione del tutto positiva. Oggi, a Napoli, un uomo senza valore è infatti definito “l’Urdemo lampione ‘e Fuorerotta”. Secondo l’interpretazione di Francesco D’Ascoli la massima viene dal numero 6666 che contrassegnava l’ultimo fanale di Fuorigrotta (quindi tappa ultima del lampiunaro): e 6 nella smorfia oltre al sesso femminile indica il babbeo.
Alessia Sicuro