Sarebbe stato preferibile, per questo articolo, onorare con decoro illustri insegnanti e leggendari capisaldi storici, che hanno smosso il panorama dell’arte della formazione a partire da Quintiliano fino a Maria Montessori, nonché riflettere sulla predicazione politica della scuola pubblica di Piero Calamandrei; coloro che spesso vengono fraintesi o denigrati dalla disciplina scolastica della cultura, quella che in Italia –purtroppo, con accezione negativa- diventa un metodo di riforma delle coscienze all’interno della società.
Ebbene, sarebbe lecito anche domandarsi perché determinati personaggi vengano menzionati superficialmente dai libri di scuola: forse per istituire il pensiero unico, condizionare l’omologazione con poche nozioni. Ma ciò che è ancor più clamoroso, è come oramai la scuola pubblica italiana stia letteralmente finendo in via d’estinzione, e gli strumenti con cui questo meccanismo genera i suoi risultati sono proprio gli stereotipi con cui controbattere l’amore per la didattica, quella alternativa.
“Insegnando imparavo molte cose. Per esempio ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia.”
Don Lorenzo Milani, prete e insegnante italiano, l’aveva offerta una scelta formativa alternativa. Quando insegnava nella Scuola di Barbiana, cercò di organizzare la scuola del popolo, una scuola a tempo pieno e la cui unica disciplina da rispettare con rigore fosse quella di essere parte della collettività. Partecipazione, impegno e responsabilizzazione per il rispetto verso il gruppo erano le materie da superare per diventare non solo educati, ma cittadini consapevoli del mondo.
Questo tipo di scuola ossia pubblica ad oggi non esiste. Così come non esiste concepire la cultura fine a sé stessa, strumento più importante per integrare la storia passata e prospettarla nell’imminente futuro della società. Certo, ciò è reso difficile se pensiamo ai continui licenziamenti degli insegnanti, che prima o poi diventeranno un ricordo come i filosofi e gli oratori, qualcuno più simpatico, qualcuno meno. E l’insegnante sarà stato l’unica figura vittima della rottamazione, che porta con sé la libertà di esprimersi nella vita scolastica per spalancare le porte del precariato, della sperimentazione continua e della privatizzazione dell’istruzione.
Perché le disuguaglianze che contraddicono la buona scuola verso cui l’Italia va incontro sono sempre più marcate: mancanza di sicurezza, ingiustizia per disabili, competizione anziché inclusione, schiaffi e repressione.
Il diritto alla ricreazione, all’aggregazione sociale e alle attività all’area aperta, fondamentali per un approccio pedagogico e che “si interessi” delle persone tralasciando la logica del valutarle, sono inconcepibili e rappresentano l’obsolescenza con cui si arriverà anche all’eliminazione del diritto allo studio per tutti.
Nessuna politica per l’integrazione degli stranieri e dei disabili e nessun servizio garantito per i figli dei disoccupati. Nessuna politica, forse è questo il problema: nessun politico in Italia oggi ha l’interesse di istruire i giovani, la classe di lavoratori di domani, quelli che saranno abituati a lavorare per esperienza e per volontariato, concependo nozioni estrapolate con le pinze e manomesse per essere efficientemente all’oscuro delle verità di essere sfruttati.
Così si favorirà la centralizzazione dei poteri in favore di sistemi completamente dittatoriali, partendo dall’esclusione nella scuola e terminando con la distruzione della cultura perché questa desta paura:
“La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri (…) Questa coscienza si è formata per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale (…) Critica vuol dire appunto quella coscienza dell’io che Novalis dava come fine alla cultura. Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione (…) E tutto imparare, senza perdere di vista lo scopo ultimo che è di meglio conoscere se stessi attraverso gli altri e gli altri attraverso se stessi”.
Citazioni:
1) Lettera a una professoressa, scritto degli studenti di Barbiana e Don Milani
2) Socialismo e Cultura, articolo di Antonio Gramsci
Alessandra Mincone