Capitalismo bio-cognitivo: lavorismo e disagio psichico
"No era Depresión, era Capitalismo" - fonte: latinta.com.ar

I due elementi fondanti e imprescindibili dell’economia capitalistica sono la proprietà privata e il rapporto capitale-lavoro in quanto fonte di valorizzazione del capitale stesso, bensì con l’incombere dell’onnipervasivo paradigma biotecnologico e algoritmico le modalità d’appropriazione di valore dal rapporto di iper-sfruttamento capitale-lavoro sono radicalmente mutate. Con la crisi del capitalismo industriale e al sopraggiungere del capitalismo bio-cognitivo si concretizza una nuova forma di accumulazione e, quindi, di sussunzione vitale laddove tutto il tempo di vita diviene forza-lavoro e, di conseguenza, la giornata lavorativa non ha più limiti, se non quelli naturali.

Difatti, il processo di valorizzazione attuale s’impernia sulla messa a valore dell’intera vita nella sua totalità e nelle sue specificità. È soggetto a mercificazione non solo tutto ciò che può essere prodotto dalla working class, ma finanche il tempo libero, i sentimenti, le relazioni socio-affettive, il lavoro di cura e le facoltà cognitive: l’insieme della vita si trasforma in valore di scambio all’interno di un contesto societario di crescente de-materializzazione della produzione.

Negli ultimi decenni, con il superamento del capitalismo di stampo fordista basato sulla produttività delle industrie e con l’estremizzazione del modello taylorista tra finanziarizzazione, e con l’internazionalizzazione selettiva della produzione e della logistica, si è sviluppato un nuovo modello produttivo digitale incentrato sulla data production e data management, teso alla creazione di enormi riserve di Big Data funzionali alla realizzazione di banche dati per la diffusione di nuove forme di bio-marketing e di potenti dispositivi materiali e immateriali di sussunzione della vita.

Attraverso la completa fusione di lavoro e vita, l’odierno capitalismo bio-cognitivo si focalizza prevalentemente sull’attività cognitiva del soggetto lavoratore e sull’iper-sfruttamento della cooperazione sociale ad appannaggio delle oligarchie finanziarie e delle corporations che necessitano inevitabilmente di conoscenze, di spazi – geografici e virtuali – e di dimensioni della riproduzione sociale ed ecologica da espropriare e privatizzare al fine di definire nuove forme di controllo e di valorizzazione capitalistica. Quindi ciò che è una proprietà comune – o quantomeno un elemento non monetizzabile – si trasforma coattivamente in proprietà privata allo scopo di massimizzare i profitti e imporre una razionalità economica assoggettante e distruttrice.

Nel capitalismo bio-cognitivo la riduzione dell’essere vivente a soggetto di prestazione subordinato e atomizzato è la risultante di un nuovo sfruttamento integrale e di un disciplinamento totalizzante che plasmano in maniera differenziata la percezione soggettiva e innescano un processo di interiorizzazione della cultura lavorista, del costante senso di precarietà esistenziale e di immaginari ingabbianti e precostituiti, sterilizzando così la ricchezza delle relazioni, orientando compulsivamente il desiderio, saturando artificialmente la sensorialità e i livelli emozionali. Nell’omogeneo spazio-tempo dell’homo oeconomicus s’instaura, pertanto, un dominio socio-biologico su tutto l’esistente finalizzato all’ottimizzazione del capitale, alla predazione ecologica e alla simultanea estrazione di valore da qualsiasi attività che sia produttiva, riproduttiva o anche improduttiva.

Riprendendo l’economista italiano Andrea Fumagalli: «Vita e ambiente sono i fattori più naturali che siano presenti sulla terra. Oggi il capitalismo è in grado di fagocitarli contemporaneamente». Perciò in una società globalmente definita da una governance capitalistica – ontologicamente mortifera – tecnologie, algoritmi e ingegneria del vivente divengono le armi d’una dominazione bio-politica che annichilisce la potenza e la ricchezza della vita riducendola a mera nuda vita, malleabile e permeabile a tutto e su cui s’esercita illimitatamente la violenza assoluta del potere.

Il lavoro nel capitalismo bio-cognitivo uccide la salute mentale

Il capitalismo bio-cognitivo ha non solo egemonizzato il campo socio-culturale in termini poltico-economici, bensì si è annidato parassitariamente nella vita quotidiana d’ognunə e nel senso comune d’intere comunità. Condiziona severamente non solo la produzione culturale ma anche le modalità mediante cui vengono regolati il lavoro e l’educazione; così subdolamente si riproduce e si consolida attraverso la limitazione sia del pensiero che della prassi individuale e collettiva.

Le piattaforme del bio-capitale riescono a interagire, controllare e manipolare le condotte sociali in modo automatizzato. Difatti, i corpi e le facoltà cognitive subiscono un assiduo condizionamento prossemico, prevalentemente digitale, teso all’omologazione comportamentale e volitiva in funzione dell’iper-consumo e del rendimento del mercato nell’ottica di una costante finanziarizzazione della vita. Dunque, viene colonizzato e incorporato tutto l’orizzonte del pensabile e del realizzabile: corpi, affetti, relazioni, desideri, idee, consumi e piani di vita della società contemporanea.

Nell’asfissiante e iper-competitivo perimetro di un modello prescrittivo, computazionale e anti-umano s’innescano dinamiche quotidiane che originano una guerra di tuttə contro tuttə dove regna esclusivamente l’interesse individuale in una realtà alienante in cui nessun paradigma alternativo è reso concretamente possibile. Si dispiega l’azzeramento della percezione stessa della vita proiettata in un futuro che sia diverso dalla ripetizione compulsiva e serializzata di un vacuo e assuefacente presente nel tentativo di soddisfare bisogni primari e bisogni feticizzati artificialmente indotti.

Ragion per cui è evidente come il feticcio della crescita e la teologia dell’inevitabile all’interno del capitalismo bio-cognitivo muovano e giustifichino le necropolitiche colonialiste e patriarcali, le darwiniste riforme neoliberali di deregulation dei servizi pubblici, d’inasprimento e precarizzazione delle condizioni produttive e riproduttive e, infine, la capillare diffusione virtuale e non di un disumanizzante senso d’impotenza e di deprivazione del futuro.

Banksy (ArtsLife)

Tutto ciò – oltre al conseguente impoverimento generale della vita sociale – genera insanabili ripercussioni psicofisiche sulla working class, sulle soggettività oppresse, espropriate, razzializzate, genderizzate e marginalizzate. Non a caso il dilagante manifestarsi di disagi psichici viene sistematicamente individualizzato nell’ottica d’alimentare un circolo vizioso che privatizza tali disagi e spinge a trattarli unicamente come squilibri individuali o disfunzionalità derivanti esclusivamente dai contesti familiari e da esperienze traumatiche pregresse curabili solo attraverso terapie farmacologiche. Espungendo in tal modo le criticità sistemiche relativamente al disagio psichico del singolo, quest’ultimo inevitabilmente si ritrova intrappolato e atomizzato in una spirale d’inadeguatezza e d’auto-colpevolizzazione.

A un contesto globale di costante definanziamento del welfare, d’individualizzazione e flessibilizzazione delle prestazioni lavorative in una direzione sempre più pervasiva, ricattatoria e scarsamente remunerata, s’aggiunge la perniciosa messa in discussione del tempo di lavoro immediato in quanto principale e unico tempo produttivo, con l’effetto che il tempo effettivo e certificato di lavoro non è più l’unica misura della produttività e l’unica garanzia di accesso al reddito. Nel capitalismo bio-cognitivo il soggetto – immerso nel fanatismo lavorista – non è più in grado di gestire autonomamente il proprio tempo di vita e la sua autentica libertà è solamente quella di farsi sfruttare pur di sopravvivere, perciò siffatta eteronomia produttivista-aziendale diviene surrettiziamente auto-sfruttamento, repressione personale, impotenza, terrore, incertezza, impossibilità di dire di no a qualsivoglia forma di lavoro, proprio perché ormai in molti casi povertà e lavoro coesistono.

Nel suo saggio Il capitalista egoista lo psicologo britannico Oliver James scrive: «le tossine più nocive del capitalismo egoista, sono quelle che sistematicamente incoraggiano l’idea che la ricchezza materiale sia la chiave per la realizzazione personale, che i ricchi sono i vincenti e che per puntare in alto non serve altro che lavorare sodo, indifferentemente dal retroterra familiare, etnico o sociale di provenienza. Se poi non riesci, l’unico da biasimare sei tu». L’ipnotico asservimento 24/7 all’ontologia aziendale erode le ore di sonno, dilata i tempi della produzione e del consumo, demonizza ogni secondo d’inattività, creatività e auto-coscienza, aggravando così le condizioni di salute di un numero cospicuo d’individui a livelli continuamente più rovinosi con il propagarsi in particolar modo di depressione, ansia, angoscia e sindrome da burnout.

In riferimento ai dati dello State of The Global Workplace del 2017, svolto dall’istituto statunitense Gallup, in tutto il mondo solo il 15% delle persone sostiene di ritenere il proprio lavoro interessante: spossata e svuotata dal punto di vista psico-fisico e sociale, la working class vive le proprie occupazioni come una inesauribile fonte di stress. Per la stragrande maggioranza di loro il lavoro non ha il benché minimo significato, non offre nessuna gratificazione o senso di realizzazione: è solo un male necessario funzionale al pagamento delle spese correnti.

Oltretutto, nel breve termine molti lavori verranno svolti da macchinari, grazie all’automazione e allo sviluppo dell’IA, andando così a rimpiazzare del tutto la working class in molti settori. Secondo il Future of Jobs Report 2023 quasi un quarto dei posti di lavoro globali è destinato a mutare nei prossimi anni, mentre nell’ultimo lustro v’è stata una perdita pari a 14 milioni di posti di lavoro in meno e la stima per il 2025 è di un deficit di 85 milioni all’incirca. Così in nome della legge della concorrenza tra le corporations, per la prima volta nella storia il lavoro che viene soppresso con la razionalizzazione dell’apparato produttivo è maggiore di quello che può essere riassorbito in virtù dell’espansione dei mercati, acutizzando pericolosamente le problematiche psichiche e sociali.

Sotto il dominio del bio-capitale i posti di lavoro hanno una centralità tale da essere decisivi per lo svolgimento della vita sociale, per l’identità stessa del soggetto lavoratore, oltre a essere l’unica fonte di sostentamento per gran parte della popolazione globale. Quindi la piaga del disagio psichico che affligge l’essere umano nella società capitalista evidenzia quanto anziché essere l’unico sistema che funziona, il capitalismo bio-cognitivo corroda il benessere collettivo e sia innatamente reificante e disfunzionale.

Is there an alternative?

Il capitalismo bio-cognitivo è volto alla vampirizzazione dei cicli riproduttivi umani e non-umani ma in virtù di ciò è destinato al collasso: succhia energia, indifferente della sua stessa sopravvivenza. La legge capitalistica del valore ha, pertanto, soggiogato la bio-sfera, il corpo sociale, la produzione di saperi e l’immaginario collettivo, disgregando ogni forma di collettività e di biodiversità, accelerando e innovando – attraverso la tecnologia algoritmica e le rivoluzioni dei cicli vitali – le dinamiche di soggettivazione e devastazione complessiva dell’esistente, e, infine, naturalizzando un paradigma socio-economico energivoro, discriminatorio, disumanizzante e anti-ecologico.

Il capitalismo bio-cogntivo sottrae alla maggioranza degli esseri viventi non soltanto i presupposti per vivere dignitosamente e i frutti del proprio lavoro e, di conseguenza, l’energia vitale, ma anche la capacità di auto-determinarsi e decidere collettivamente sugli aspetti più cruciali riguardo le modalità di un vivere comune, auto-gestito ed eco-sostenibile. Come destituire un modello metastatico e invivibile? Quali lavori è ancora necessario svolgere? Per quante ore? Quanto tempo libero bisogna avere? Cosa lasciare alle prossime generazioni? Come coesistere in modo rigenerativo con gli ecosistemi naturali? Cosa fare con il surplus sociale che viene prodotto collettivamente?

Mediante la ri-politicizzazione delle lotte, del desiderio, del disagio e mediante la ri-colettivizzazione, la de-mercificazione, la decolonizzazione delle esistenze si può superare l’orizzonte di senso definito nella sua totalità dal pensiero dominante, si può infrangere il continuum apparentemente a-temporale e ineluttabile di un progresso catastrofico e ad appannaggio di una sparuta minoranza. Si configura così la possibilità di risignificare l’alterità, la vita medesima, e così si manifesta la dirompente necessità di emancipazione e di liberazione dalle catene mortifere di un’oppressione socialmente e storicamente determinata.

(Il Libraio)

Riprendendo un frammento tratto da Realismo Capitalista di Mark Fisher: «Inutile dire che quello che viene considerato «realistico», quello cioè che sembra plausibile dal punto di vista sociale, è innanzitutto determinato da una serie di decisioni politiche. Qualsiasi posizione ideologica non può affermare di aver raggiunto il suo traguardo finché non viene per così dire naturalizzata, e non può dirsi naturalizzata finché non viene percepita come principio anziché come fatto compiuto. Di conseguenza il neoliberismo […] ha imposto con successo una specie di «ontologia imprenditoriale» per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione, andrebbe gestito come un’azienda. […] Ogni politica di emancipazione deve puntare a distruggere l’apparenza dell’ordine naturale, deve rivelare che ciò che viene presentato come necessario e inevitabile altro non è che una contingenza».

Gianmario Sabini

Gianmario Sabini
Sono nato il 7 agosto del 1994 nelle lande desolate e umide del Vallo di Diano. Laureato in Filosofia alla Federico II di Napoli. Laureato in Scienze Filosofiche all'Alma Mater Studiorum di Bologna. Sono marxista-leninista, a volte nietzschiano-beniano, amo Egon Schiele, David Lynch, Breaking Bad, i Soprano, i King Crimson, i Pantera, gli Alice in Chains, i Tool, i Porcupine Tree, i Radiohead, i Deftones e i Kyuss. Detesto il moderatismo, il fanatismo, la catechesi del pacifismo, l'istituzionalismo, il moralismo, la spocchia dei/delle self-made man/woman, la tuttologia, l'indie italiano, Achille Lauro e Israele. Errabondo, scrivo articoli per LP e per Intersezionale, suono la batteria, bevo sovente per godere dell'oblio. Morirò.

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