Indiana Jones e il quadrante del destino, la recensione

All’annuncio di un quinto film su Indiana Jones circolava un meme che ironizzava su come il prossimo film del franchise avrebbe visto il più famoso archeologo della storia del cinema, oramai ottantenne, alla ricerca di un’antichissima reliquia mitologica: se stesso. Era una battuta, certo, ma una battuta che alla fine si rivela vicinissima alla realtà, perlomeno metaforicamente: nel quinto e ultimo film della saga, “Indiana Jones e il quadrante del destino”, Indy è un personaggio invecchiato e incarognito che ha perso tutto ciò che per lui contava, che sembra essersi alienato dalla realtà circostante, senza più una bussola che gli indichi cosa ci faccia in un mondo che di cappelli, fruste e avventure pulp non ha più bisogno. In un 1969 dove nuovi miti catturano l’attenzione delle nuove generazioni, ovvero quelli futuristici della corsa spaziale e del’allunaggio, sentir parlare di antichi manufatti storici, di nazisti cattivissimi e di reperti museali non incontra l’attenzione di nessuno; i musei sono roba da vecchi, i razzi spaziali sono diecimila volte più interessanti di un Sacro Graal, e i nazisti (quelli in uniforme almeno) sono stati spazzati via nel 1945. L’ultima avventura di Indiana Jones diventa così una ricerca simbolica e temporale del personaggio all’interno di un mondo che sembra non volere avere più nulla a che fare con lui perché non ne ha più bisogno. E che anzi mette in discussione i presunti valori eroistici di un personaggio che, estremizzato, potrebbe essere messo sul banco degli imputati della storia come un avido cercatore di gloria non tanto diverso da un tombarolo (il personaggio di Helena ne è all’inizio la naturale evoluzione, o involuzione). Un elemento narrativo ambiguo che ha nutrito tutti i film della saga riflettendosi sulle scelte etiche compiute da Indiana stesso, ma che qui investe gli eredi del suo lascito, mettendolo di fronte alle proprie responsabilità nei loro confronti.

Lungi però dall’essere solo una amara riflessione sulla vecchiaia e i peccati dei padri, “Indiana Jones e il quadrante del destino” è proprio ciò che ci si può aspettare da un film di Indiana Jones. La reliquia potentissima dai poteri straordinari c’è, come da tradizione (per i più distratti: è già citata nel titolo); l’avventura pulp c’è, e al suo interno troveremmo elencato inseguimenti a rotta di collo in ambienti esotici, sparatorie, antichi templi pieni di trappole, scheletri e mummie disseminati ovunque, complottismo governativo, momenti sovrannaturali, ironia costante, villain spietati accecati dalla gloria (Mads Mikkelsen/Voller non è Arnold Toth o il sacerdote dei Thug ma si difende alla grande), e poi ci sono i nazisti cattivissimi che sostituiscono gli insipidi sovietici del quarto. Indiana Jones si muove in bilico tra abissi, burroni e cadute. Ci sono gli animali letali e schifosissimi. Ci sono scagnozzi ipertrofici che sembrano usciti da Mister Olympia e menano come fabbri. I rapporti di Indy con le donne della sua vita sono a dir poco problematici. C’è persino il ragazzino senza famiglia che si imbarca in avventure più grandi di lui, come Short Round nel “Tempio maledetto”.

Insomma: tutte le caselle sotto la dicitura “film di Indiana Jones” sono spuntate, con la differenza che in questo nuovo corso in un mondo più moderno dagli anni ’50 in poi, Indy non cerca MacGuffin legati ad antiche religioni millenarie (giusto i nazi sono ancora fissati con quello) ma si ritrova ai confini tra la paleoastronautica o la matematica che sfocia nella magia: siamo passati dalle reliquie care alle divinità giudaico/cristiane e induiste agli alieni e Archimede. Ma anche così affermare che avevamo bisogno di un quinto film su Indiana Jones vorrebbe dire mentire spudoratamente: non avevamo bisogno nemmeno del quarto, film che ha polarizzato come pochi altri negli ultimi decenni e che ha dalla sua una nutrita schiera di (giustificatissimi) detrattori. Ma rispetto a “Il regno del teschio di cristallo” (2008) – che era diretto da Spielberg, uno che la sua creatura, come George Lucas, dovrebbe conoscerla come nessun altro ma che in quell’occasione se l’è fatta sfuggire di mano più volte – James Mangold rimette sui binari una saga che delle esagerazioni aveva fatto la sua cifra stilistica e lo fa nel modo giusto, maneggiando con abilità da mestierante un materiale di cui è plasmata la storia del cinema dal 1981 ad oggi, senza strafare e con la new entry perfetta: ovvero Phoebe Waller-Bridge, che si cala nel ruolo della figlioccia di Indy con naturalezza caricandosi sulle spalle parte di ciò che Harrison Ford, per forza di cose, è oggi impossibilitato a fare. Shia LeBoeuf, che aveva interpretato il figlio di Indy, è il grande assente del quinto capitolo visto che, a seguito di vari problemi, era impossibile riaverlo a bordo: assenza che diventa coerentemente parte del racconto.

Phoebe Waller Bridge e Harrison Ford nel ruolo di Helena Shaw e Indiana Jones, figlioccia e padrino. Immagine presa da The Hollywood Reporter

Parlando di Harrison Ford il primo elemento che salta all’occhio anche prima di approcciarsi alla visione è che due delle colonne portanti della saga di Indiana Jones sono un attore ottantenne e un musicista novantunenne (John Williams); e se la musica di Williams ha sempre una riconoscibilità unica, pochi eroi nell’immaginario collettivo cinematografico sono legati alla fisicità come Indiana: Harrison Ford è inscindibile dal personaggio, che salvo rarissimi casi è impensabile possa essere interpretato da qualcun altro (il meraviglioso incipit de “L’ultima crociata” vede un perfetto River Phoenix come giovanissimo Indy: ma è qualcosa che non si è più ripetuto con quei termini iconici, neanche nella serie tv sul giovane Indiana Jones); gli unici cloni che hanno davvero funzionato non li abbiamo quasi mai visti al cinema (tolto il franchise de “La Mummia”) né nella serialità televisiva, bensì nei videogame con il Nathan Drake della saga Uncharted. Insomma: Indy non è un James Bond né un Doctor Who, personaggi che possono resettarsi ciclicamente restando in fondo sempre uguale a sé stessi anche – e soprattutto – sostituendo l’interprete. L’unico altro paragone nel cinema degli ultimi trent’anni sarebbe con l’Ethan Hunt di Tom Cruise in Mission Impossible: ultimi divi di un cinema che non esiste più, le saghe cucite attorno al loro corpo attoriale moriranno quando non potranno più interpretarle.


Questo però causa anche l’impossibilità nel 2023 (almeno con le tecnologie a nostra disposizione oggi) di poter fare un film su Indy mantenendo inalterate le caratteristiche che hanno reso la trilogia degli anni ’80 un tripudio di intrattenimento impareggiabile, legate come sono al fisico di Harrison Ford – e alla sua credibilità di poter saltare con la frusta, rotolare, buttarsi da auto in corsa o fuggire da massi rotolanti letali. Mangold e sceneggiatori riescono a dare dignità a qualcosa che sulla carta sembra impossibile, ovvero i limiti che deve affrontare Harrison Ford, e lo fanno mettendo in primissimo piano il corpo seminudo da ottantenne (per quanto ancora in formissima) di Ford subito dopo avercelo presentato in un flashback ambientato nei tempi d’oro, ringiovanito con una CGI ancora lontana dalla perfezione ma decentissima e per fortuna presente solo all’inizio.

Lo stacco netto tra l’incipit nel castello nazista e quest’anziano in mutandoni e sbevazzone in un appartamentino di Manhattan è volutamente traumatico. Da lì in poi la questione è ridare credibilità al fatto che questo signore possa fare cose che nessun altro può fare a quell’età e in generale, perché questo signore è un eroe: e qui entra in campo quel trucco spennapolli (un po’ come quello delle carte che il personaggio di Helena fa a dei marinai durante il film), un trucco che si chiama cinema. È un salto della fede, per restare nell’ambito citazionista di cui il film è pieno: o si accetta o si rifiuta in toto, e se si accetta è naturale godersi il film per quello che riesce ad essere, ovvero derivativo senza intenzione di essere originale, con scene d’azione e di inseguimento di buona fattura (siamo comunque lontanissimi dai fasti dei primi tre capitoli) ma capace di emozionare – e non poco – in un paio di sequenze. Tutto il resto è merito di un Harrison Ford che a ottant’anni suonati cavalca e smonta da cavallo con naturalezza, ha le spalle incurvate ma non è mai rigido o legnoso, e ci mette l’anima oltre a tutto il corpo che ha ancora a disposizione. Il risultato, che in fondo è ciò che può estendersi all’intero giudizio sul film, è di enorme dignità. E di divertimento, perché il più grande complimento che si può fare a un film di cui non c’era bisogno, con un eroe che sarebbe stato comunque meglio ricordare mentre cavalca con i suoi amici e suo padre verso il tramonto, è che “Indiana Jones e il quadrante del destino” è un film dignitosamente divertente, magari una mezza riparazione per chi ha odiato il quarto capitolo o lo ha apprezzato poco, in cui Mangold dimostra di saper rileggere in chiave crepuscolare personaggi con una lunga vita alle spalle che stanno uscendo di scena (viene subito in mente “Logan”) ma in questo caso senza per fortuna lanciarsi nel dramma senile votato alla morte di un’icona. Altrimenti non sarebbe un film di Indiana Jones: gli eroi, anche se acciaccati, sono immortali.

Nicola Laurenza

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