Al di là delle elezioni europee, che risultano sempre interessanti, e di chi esprime una propria opinione al dato dell’astensionismo su cui grava una certa riflessione post-voto, c’è sicuramente da porre una riflessione sul concetto di governance che investe l’Europa nonché la pubblica amministrazione negli Stati membri.
Il concetto di governance sembra essere utilizzato in maniera eccessiva, anche in ambiti in cui si parla di diritti, come nelle pubbliche amministrazioni e nelle scuole. In effetti tale concetto nella storia era circoscritto a settori meramente economici, sociali certo, ma intesi come stili di governo; ad oggi vi è stata un’implementazione di significato, forse anche abusata, ed è espressione di forze e azioni individuali in vista di un ordine sociale fondato sulla cooperazione.
L’Europa è certamente espressione di governance, ma non di policy maker: non a caso parliamo di deficit democratico a livello rappresentativo e decisionale; difatti, decade il concetto di “Europa degli Stati membri”, ma prevale l’Europa dei tecnici e delle Commissioni tecniche. Sicché quando si chiede un voto all’unanimità il Parlamento europeo attraversa una fase di stallo.
L’attuale modello di governance che abbiamo appena trattato condiziona soprattutto la pubblica amministrazione; l’obiettivo è rendere ogni p.a. attenta al risultato proprio come un’azienda privata, diminuendo i costi e massimizzando i risultati. La governance nasconde e filtra in maniera efficiente i tentacoli del capitalismo: liberalizzazione dei mercati e dei servizi, con la partecipazione dei privati a cui lo Stato affida le maggiori mansioni su supporto del processo di europeizzazione e globalizzazione. Perché? Pare che innocuamente la scelta di un modello politico fondato sulla governance volesse incentivare la p.a. – nel particolare – a mirare esclusivamente al raggiungimento di obiettivi prefissati dall’Europa o meno, premio, naturalmente (non esplicitato) di maggiore risorse: rendere cioè la governance territoriale la sede del manager aziendale e non del dirigente orientato a realizzare semplicemente i programmi di Stato.
Allo stesso modo funziona per ogni organizzazione che riceve risorse comunitarie, e quindi vive di un ciclo economico dipendente (anche se non in via esclusiva): così la scuola. Come si può paragonare l’obiettivo di una azienda ad una scuola? Ecco il motivo per cui oggi si parla di governance come modello scolastico, imprenditoriale nell’ambito pubblico e privato. Sopravvivi se raggiungi gli obiettivi di produzione, di accumulazione: certo, storicamente il “post fordismo” è superato. Ma nella prassi in che modo, se il processo di accumulazione legato all’elemento di produzione è insito negli ambienti più impensabili? Si è sempre criticato l’economista, come se ogni sua profezia fosse espressione di risultati meramente astratti, che non tenessero conto del prodotto e dell’impatto sociale reale, empirico: oggi gli si affidano poteri legislativi che orientano su vasta scala la pubblica amministrazione, organizzazioni scolastiche, istituzioni, organi e uffici in cui vige l’essenza della new public management. Ma c’è un grosso rischio che stiamo correndo, oltre ad una spersonalizzazione – che non vuole essere una rivendicazione di espressione conservatrice: nel linguaggio, ma anche nelle identità dei vari Stati membri c’è una deriva che non è ancora annoverata tra le patologie burocratiche che incombono sul pubblico (dunque su ognuno di noi), e cioè l’outsourcing.
Risorse e funzioni pubbliche vengono spostate dal settore pubblico a quello privato dell’economia: si sta cioè avverando il sogno per eccellenza del neoliberismo, ovvero indebolire il pubblico, sottrarre in maniera subdola i poteri allo Stato democratico garante innanzitutto di valori democratici.
Non è così complicato comprendere e conoscere ciò che accade attorno: si utilizzano paroloni per allontanare le persone dalla res publica, dall’interesse che la società civile deve e dovrebbe avere rispetto alle varie manovre dei nostri rappresentanti. Invece si parla di spread, di governance, di policy maker, di workfare e non più di welfare state… Il punto è che con tutte queste parole che tecnicamente trovano espressione nelle varie società, si mette in atto una potente discriminazione di classe oltre che ad un reale e pericolosissimo sovvertimento dei principi democratici in nome della democrazia stessa.
Bruna Di Dio
Testi di riferimento: “La teoria della Governance: sfide e prospettive” di Renate Mayntz – “La dirigenza della Regione Campania e i fondi strutturali europei” di Claudia Avolio e Paola De Vivo