Il filosofo Friedrich Nietzsche scrisse: «Probabilmente io so perché solamente l’uomo è capace di ridere. Egli soffre così profondamente che ha dovuto inventare il riso.» Evidentemente è così che è andata, e va ancora, a Napoli, una città sempre più enigmatica e poliedrica, che della risata ha fatto una peculiarità distintiva contro le mille difficoltà che da sempre stringono come in una morsa la terra e il mare partenopei. Se come ha scritto Giuseppe Marotta “L’Oro di Napoli” è nella capacità di industriarsi del suo popolo, non può certamente mancare il riso, che sia passatempo, lavoro o l’espressione di un momento. Non è, dunque, forse un caso se per bocca dei napoletani si sente dire: ”Chi nun sape chiagnere nun sape manche rirere (Chi non sa piangere non sa neanche ridere.)”. Numerose sono state e sono, infatti, le personalità napoletane che della risata hanno fatto il loro mestiere, tra essi: Nicola Maldacea, l’inventore della macchietta napoletana.
Fisico robusto, viso tondo e paffuto, labbra sottili e vocenotevole, accanto a un virtuosismo istrionico, sono le forme di cui si avvale Nicola Maldacea, per far ridere e guadagnarsi da vivere. Una volta, nelle vesti di seminarista chiese al pubblico: «ma ve pare ca so’ fatto pe’ digiune e penitenze pe fa’ ‘a vita d’ ‘o pecuozzo e pensare all’indulgenze?» Probabilmente no, e infatti Nicola Maldacea sceglie la strada del cantante, attore e cantautore, giungendo a inventare una forma d’arte tipicamente napoletana: la macchietta. Nasce a Napoli il 29 ottobre 1870, da madre napoletana e padre originario di Cosenza, che con la sua passione per il teatro, sebbene il suo mestiere fosse quello di maestro delle elementari, contagia il figlio, che purtroppo dal sangue paterno erediterà anche il vizio per il gioco, mandandolo in malora sul fine della sua vita.
La passione per il palcoscenico si rivela sin da subito, in casa e nei saggi scolastici. In età adolescenziale frequenta la celebre scuola di dizione e recitazione di don Carmelo Marrocelli e dopo una prima preparazione d’ambito, intraprende il suo percorso di esibizioni come canzonettista all’interno delle cosiddette periodiche. Si trattava di riunioni organizzate nelle case della borghesia napoletana, dove gli artisti napoletani potevano guadagnarsi soldi e notorietà. Così accade all’inventore della macchietta napoletana. Durante una delle sue esibizioni, viene notato da un lavoratore del teatro Partenope, che lo indirizza alla compagnia di Davide Petito, fratello del celebre Pulcinella Antonio. Superati gli esami di ammissione, inizia la scalata. Viene scritturato per le compagnie teatrali di Eduardo Scarpetta e Gennaro Pantalena, con le quali ha modo di farsi conoscere e approdare al Salone Margherita.
È qui, nel café chantant tra i più famosi al mondo, che arriva la svolta nel 1891, precisamente il 28 maggio: «scritturato per 400 lire al mese come “chanteur comique napolitain” per uno spettacolo a sera più le matinées, dagli impresari e proprietari G. Marino ed E. Caprioli, il Maldacea passò velocemente dalle iniziali canzoni brillanti che lo avevano fatto precedentemente conoscere, alle macchiette vere e proprie», soprattutto grazie al sodalizio artistico col letterato Ferdinando Russo, che scrive per Maldacea canzoni satiriche ispirati a fatti di cronaca. Nasce così la “Macchietta”, un’esibizione, che somiglia a una macchia appunto relativa ad alcuni tipi, dal carattere caricaturale, in cui l’attore recita e canta in una sorta di monologo musicato servendosi al contempo di doppi sensi, umorismo, paradossi e volgarità al fine di divertire il pubblico, alleggerire il peso della vita e sulla stessa far riflettere. Diversi sono i personaggi interessasti: ecclesiastici, nobili, madre apprensive, vecchi maldicenti, guappi, cornuti, camorristi e tanti altri. Fra le sue macchiette più famose ricordiamo: La cocotte intelligente, Il balbuziente, O Rusecatore, Il collettivista e O Jettatore.
Tanti furono i personaggi rappresentanti da Maldacea quanti furono coloro i quali scrissero per lui: da Salvatore Di Giacomo a Trilussa e Rocco Galdieri, che scrissero spesso senza firmarsi, con musiche di Vincenzo Valente e Salvatore Gambardella. La fortuna dell’attore napoletano però non durò fino alla fine dei suoi giorni. Intorno agli anni 30 del ‘900, caduto in un evidente oblio e in miseria, per colpa della ludopatia, cercò di farsi spazio anche al cinema, ricoprendo però piccoli ruoli in pellicole tra le quali “Il feroce Saladino” (regia M. Bonnard, 1937), “Kean” (G. Brignone, 1940), “Miseria e nobiltà” (C. D’Errico, 1941). Muore a Roma il 5 marzo del 1945, senza risate né denari, ma l’oblio di allora è in parte combattuto grazie alla memoria di macchiettisti contemporanei come Vittorio Marsiglia e di pochi altri amanti del genere, mentre i suoi resti giacciono nel cimitero di Poggioreale, nei pressi della Congrega dei professori di Belle Arti.
Alessio Arvonio