Clima e ambiente sono stati al centro del cinquantesimo appuntamento organizzato a Davos dal World Economic Forum e intitolato “Stakeholders for a cohesive and sustainable world” (Azionisti responsabili per un mondo coeso e sostenibile). Come è emerso dal rapporto del Wef circa 44 mila miliardi di dollari, oltre la metà della produzione annua di valore aggiunto mondiale, risultano essere moderatamente o altamente dipendenti dalla natura e dal suo sfruttamento e, dunque, finiscono per essere esposti a fenomeni come il riscaldamento globale o la perdita di biodiversità. Anche le attività economiche, insomma, non sono immuni alle minacce dei cambiamenti climatici. Sui loro effetti e sul modo in cui essi si collegano al concetto di giustizia intergenerazionale sarebbe opportuno cominciare ad accendere la luce dei riflettori.
Per cambiamento climatico l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) intende un qualsiasi cambiamento del clima nel tempo, dovuto alla variabilità naturale o allo svolgimento di attività umane. L’UNFCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) fornisce, invece, una definizione leggermente diversa, restringendone il significato a quei cambiamenti attribuibili direttamente o indirettamente all’attività antropica che alterano la composizione dell’atmosfera globale e si aggiungono alla variabilità climatica naturale osservata in periodi di tempo comparabili. Che si prenda in considerazione la prima o la seconda definizione, una cosa è certa: da quando la Terra ha avuto origine, il suo clima è sempre stato soggetto a fluttuazioni periodiche e aperiodiche nella temperatura e nelle precipitazioni. Altrettanto certo è che, oggi, il cambiamento climatico in corso è determinato in misura maggiore da attività umane che da cause naturali. A dirlo è la scienza, quella che – troppo spesso – viene tacciata di essere allarmista e che puntualmente si finisce per ignorare perché rivelatrice di verità scomode che si conciliano poco, se non addirittura per nulla, con gli interessi di chi cerca solo un profitto economico.
I cambiamenti climatici costituiscono una minaccia globale con implicazioni ambientali, sociali, politiche ed economiche che gravano soprattutto sulle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, come quelle degli Stati africani, in cui la sussistenza è strettamente legata alle risorse naturali e allo svolgimento di attività tipiche del settore primario. Perdita di biodiversità, migrazioni di animali, innalzamento del livello del mare sono solo alcune delle possibili conseguenze che, provocate dai cambiamenti climatici, finiscono per avere ripercussioni nefaste sulla vita di queste popolazioni. Esse, prive tanto delle risorse economiche necessarie quanto di adeguati servizi sociali di tutela, si vedono costrette ad abbandonare le proprie terre. Altra conseguenza diretta dei cambiamenti climatici è rappresentata dunque dalle migrazioni ambientali che coinvolgono quei soggetti che, a causa di terremoti, inondazioni, siccità e altre catastrofi naturali non possono far altro che lasciare la propria casa, il proprio lavoro e la vita che conducono per cercare rifugio altrove. Una ricerca ulteriormente ostacolata dal mancato riconoscimento dello status di rifugiati che, da un lato, è indice di una certa difficoltà della giurisprudenza di stare al passo coi tempi e, dall’altro, è sintomo della perdita di un senso di solidarietà nei confronti dell’altro che dovrebbe caratterizzare qualsivoglia società che si pretende civile.
Ma più che civile, la società attuale sembra essere sorda. Sorda alle disperate grida d’aiuto provenienti dagli indigenti e dagli esclusi che si trasformano nei dannati di questa Terra. Dannati però dovrebbero essere solo coloro che questo pianeta lo stanno lasciando bruciare, senza essere turbati dall’idea che, così facendo, non resteranno che ceneri da lasciare in eredità alle generazioni future. A mancare dunque è anche quel senso di responsabilità che dovrebbe indurre la classe politica mondiale ad abbandonare l’idea dell’immediato soddisfacimento dei propri interessi particolari e noi cittadini a modificare i nostri modelli di comportamento, così da rendere nuovamente sostenibile la vita sulla Terra. Proprio questa l’esigenza espressa nel concetto di giustizia intergenerazionale: parlare di giustizia intergenerazionale significa riconoscere l’esistenza di relazioni, responsabilità ed obblighi morali che la generazione attuale è chiamata ad avere nei confronti di quella futura.
Il concetto di giustizia intergenerazionale può essere declinato in più campi, incluso quello ambientale dove si coniuga con un altro, fondamentale, concetto: quello di sviluppo sostenibile. Proposto nel 1987 nel rapporto Brundtland, lo sviluppo sostenibile rappresenta un modello di sviluppo in grado di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle generazioni future di soddisfare i propri. In base a tale principio, dunque, l’idea chiave di questo modello di sviluppo consiste nel tramandare alle generazioni future uno stock di qualità della vita non inferiore rispetto a quello ereditato. Se con stock di qualità della vita si intende far riferimento all’insieme della ricchezza materiale, data dalla somma di capitale naturale e di capitale prodotto dall’uomo, e si accetta la possibilità di una completa sostituibilità tra i due, allora la generazione attuale potrebbe legittimamente proseguire nel degradare gli ambienti naturali a patto di rimpiazzarli con ricchezza capitale prodotta dall’uomo. È questa la cosiddetta sostenibilità debole. Se, invece, lo sviluppo sociale ed economico incontra il limite della necessità di lasciare alle generazioni future lo stesso stock di capitale naturale di cui dispongono le generazioni attuali si sarà in presenza dell’accezione forte di sostenibilità. Se la valenza teorica del concetto di sviluppo sostenibile coniugato con quello di giustizia intergenerazionale è senza dubbio forte, ancora manca una riflessione chiara e, soprattutto, univoca su come un simile modello debba essere posto in essere e su come riuscire a misurare e conseguentemente valutare la sostenibilità.
In tale contesto di incertezza, uno strumento che permetterebbe di far fronte efficacemente ai rischi ambientali, che gravano tanto sulle generazioni presenti quanto su quelle future, è rappresentato dal dialogo tra i vari attori sociali. Essi dovrebbero essere resi parte attiva di ogni processo decisionale che riguardi gli eventuali impatti negativi che un dato progetto potrebbe apportare all’ambiente (in termini di incremento di emissioni, sfruttamento delle risorse naturali, mutamento del paesaggio). Si pensi a quei progetti finalizzati alla realizzazione di complessi industriali, di impianti sportivi destinati ad accogliere grandi eventi o, ancora, di centrali nucleari. L’esecuzione di questi progetti – o di qualsiasi altra infrastruttura la cui realizzazione è aprioristicamente associata al concetto di sviluppo – avviene in accordo con le istituzioni locali, ma non anche con gli attori sociali interessati. Così, coloro che dovrebbero essere i principali destinatari di questo “sviluppo imposto” finiscono per diventarne le vittime proprio perché esclusi dai processi decisionali. Frequentemente, infatti, chi dovrebbe favorire il dialogo si impegna in realtà ad ostacolarlo. Neanche la presa di parola da parte di giovani e giovanissimi, che riempiono le piazze di tutto il mondo per protestare contro una generazione incapace di guardare alla terra come ad un bene comune, viene tenuta nella giusta considerazione. Alla loro voce presterebbe forse ascolto uno statista, se è vero che nel distinguere tra questo e un politico James Clarke spiegava che lo statista pensa al domani delle generazioni, mentre il politico solo all’oggi. Impegnato a costruire il proprio consenso qui ed ora, il politico finisce, inevitabilmente, per sottovalutare o ignorare il concetto di giustizia intergenerazionale. Ed è anche a questo che dobbiamo pensare quando, matita alla mano, nelle urne votiamo i nostri rappresentati istituzionali. Per fronteggiare i cambiamenti climatici e promuovere realmente una giustizia tra generazioni occorrerebbe un altro cambiamento: quello di prospettiva.
Virgilia De Cicco