L’orribile attentato del 7 gennaio scorso a Parigi, avvenuto per opera di tre uomini armati presso la sede del settimanale satirico Charlie Hebdo, ha suscitato nella pubblica opinione reazioni anche molto diverse fra loro.
Soffermarsi su ognuna di esse non è l’obiettivo di questo articolo.
La nostra attenzione, al contrario, vuole concentrarsi su un diverso aspetto della questione, non meno importante per l’analisi di quello che potremmo definire uno scontro fra diverse culture: le strategie comunicative dei terroristi e la loro effettiva corrispondenza ai precetti dell’Islam.
Fra le tante citazioni apparse in questi giorni sui social network, le nuove agorà virtuali che ospitano un numero sempre crescente di sedicenti esperti pronti a disquisire su tutti e su tutto, a noi è piaciuta in modo particolare quella di Papa Francesco, che qualche mese fa, durante una visita in Albania, ha lasciato un chiaro monito agli estremisti, dicendo: “Nessuno pensi di poter farsi scudo di Dio… Nessuno prenda a pretesto la religione per le proprie azioni contrarie alla dignità dell’uomo e ai suoi diritti fondamentali, in primo luogo quello alla vita ed alla libertà religiosa di tutti!”.
Questa esortazione, che ogni uomo dovrebbe scolpire a caratteri indelebili nella propria coscienza, è stata mortificata ancora una volta dall’attentato di mercoledì scorso in Francia.
Per alcuni, si è rivelata una facile occasione per ribadire l’intrinseca ferocia della dottrina islamica, violenta e arretrata rispetto alla cultura occidentale.
Ma è davvero così? Noi crediamo di no, per due motivi, uno storico e l’altro per così dire semantico.
In primo luogo, pur ammettendo un più intenso connubio rispetto al mondo cristiano-cattolico fra la sfera politica e spirituale della Umma, la comunità islamica globale, è necessario ricordare che lo Stato islamico, anche in tempi recenti, ha conosciuto periodi di apertura, tolleranza e flessibilità. Non è un mistero, infatti, che in Medio Oriente, sotto l’ideologia sufita fino agli anni Settanta del Novecento, le donne erano libere di circolare senza il velo.
Quello che è successo dopo è un perfetto esempio di come una strategia comunicativa ben congegnata ed improntata sulla provocazione e sul terrore possa riuscire a irretire e plagiare una parte consistente della popolazione, quelle masse poco istruite e intrise di sentimenti antioccidentali, alle quali è stato fatto credere che il solo e unico nemico dovesse essere l’Occidente degli infedeli.
Sarebbe opportuno chiedersi, pertanto, se più che la religione in sé considerata, siano le parole degli uomini a fomentare odio e violenza, sentimenti che spesso si possono ritorcere contro gli stessi sobillatori.
E’ di ieri, infatti, la notizia del massacro perpetrato dai miliziani di Boko Haram, che nello stato nigeriano del Borno hanno massacrato un numero spaventoso di civili. Fra le vittime degli assassini – anch’essi fondamentalisti islamici – non c’erano solo cristiani, ma anche musulmani, colpevoli di non aver sposato un’ideologia così estremista e mortifera.
Alla luce di questi eventi, nonché dell’inevitabile strascico di commozione, paura e sgomento che hanno portato nella comunità mondiale – e quindi anche quella dei musulmani moderati – si impone una riflessione su quella che potrebbe essere la maniera più efficace di contrastare questa violenta subcultura, che a nostro avviso, tuttavia, non va associata ad alcuna confessione religiosa.
La strategia del terrore si può combattere anche con la cultura e la democrazia, ed uno dei doveri dei Paesi occidentali è quello intervenire sulle coscienze della società civile musulmana, scuotendole con vigore affinché l’ideologia estremista e sanguinaria possa lasciare il posto ad un Islam moderato, aperto e tollerante, com’è già stato un passato non lontano.
Carlo Rombolà