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Bordertown, con Jennifer Lopez e Antonio Banderas, è Ciudad Juárez, al di là del Rio Grande, nel brutale Messico, al confine sud degli USA. Un film che già nel 2006 raccontava di quella che è la capitale più pericolosa del mondo, geograficamente posta a metà strada tra i maggiori produttori di droga del Sudamerica e i maggiori consumatori e distributori, ovvero gli Stati Uniti. Stupefacenti e armi per centinaia di milioni di dollari passano di qui per raggiungere il resto del mondo. Ed è grazie a posti come questi che, con la corruzione e il denaro, le bande criminali di tutto il mondo riescono ad assicurarsi la droga e le armi per alimentare la malavita e la criminalità, passando da questa città messicana di circa un milione e trecentomila persone.
Per lungo tempo la polizia del luogo ha coperto e servito questa realtà, in nome della stessa legge che serve i cartelli: “Argento o Piombo”. E così, chi ha respinto la corruzione è stato ammazzato, anche allo scopo di spaventare e piegare tutti gli altri. Attualmente si cerca di combattere questo fenomeno che taglia e lacera una realtà già affaticata dalle precarie condizioni economiche, una realtà posta, sempre più spesso dinanzi alla scelta “o soldi o pallottole”.
Dal 1° Gennaio 1994 poi, come conseguenza dell’accordo NAFTA, le famiglie più ricche del Messico, in collaborazione con Canada e Stati Uniti, hanno costruito lungo questo confine disgraziato alcune decine di migliaia di fabbriche e stabilimenti, approfittando della manodopera a buon mercato e dell’assenza di pesanti imposte dettate dalla depressione economica.
Queste imprese, chiamate maquiladores, sono attive per la maggior parte 24h e producono beni da vendere prevalentemente altrove: ogni tre secondi viene realizzato un televisore e ogni sette un computer. Solo a Juárez sono più di mille le maquiladores, ed esse impiegano per lo più giovani donne, le quali si accontentano di salari più bassi e accettano condizioni di lavoro e turni lunghi senza opporre resistenze.
Il film racconta la vera storia di Juárez, che s’intreccia con quella di una giovane reporter, inviata da Chicago per scrivere un articolo sul femminicidio ivi sviluppatosi nell’arco di pochi anni, e Eva, una giovane donna originaria del sud, cresciuta troppo in fretta e scampata alla morte dopo una feroce e violenta aggressione. Due mondi differenti che si incontrano e si amalgamo in virtù di una profonda solidarietà femminile.
La condizione delle donne di Juárez è quelle tipica di un sistema politico traviato, di un apparato socio-criminale e di una società corrotta che si vende alla droga e alla criminalità. Amnesty International ha stimato in alcune migliaia le vittime ammazzate dal Novanta ad oggi, e si tratta in prevalenza di giovani donne perseguitate da un sistema incapace di proteggerle o perché esse stesse troppo deboli e incapaci di difendersi da sole. Corpi violati e deturpati che talvolta riaffiorano nel deserto o mai più ritrovati. Quasi tutte le vittime non hanno avuto giustizia a Juárez, perché tutte povere e disgraziate.
Del resto, come è possibile fronteggiare tanta violenza in un paese dove il 95% degli omicidi viene archiviato senza colpevoli, dove la media è di 10 morti al giorno, dove le gang sono viste come la vera forza politica, capaci addirittura di controllare alcuni settori delle carceri ormai trasformati in vere e proprie oasi di serenità?
Juárez è un’area del pianeta soprannominata la città del male, percepita come la vergogna del Messico, dove i crimini non sono né perseguiti, né puniti. Dove le forze politiche tendono a coprire questo scempio e dove l’impunità produce altra violenza. Dove gli uomini sentono di essere superiori alle donne e dove le forze religiose hanno colpevolizzato la loro “aspirazione civile all’emancipazione”.
Nel frattempo gli Stati Uniti di America vengono qui a prendere parte delle loro risorse, a scapito della povera gente, mentre il resto del mondo resta distaccato, quasi preoccupato a informarsi e a informare solo di quello che fa meno male, perché la verità sepolta fa sentire a posto con la propria coscienza.
C’è gente a Juárez che tenta di scappare oltreconfine, saltando il Rio Grande, talvolta vendendo tutto quello che possiede a trafficanti senza compassione.
C’è gente a Juárez che fa di tutto pur di scappare via lontano da quella triste realtà. C’è gente a Juárez che resta lì, impotente, rassegnata a piangere le sue vittime. Che diventa inevitabilmente mercanzia dei governi e delle grandi imprese che maturano sulla loro pelle i loro profitti, beneficiando degli accordi di libero scambio. Esiste forse un terreno più fertile di quello dove lo Stato è assente, dove regna una folle cultura dell’omicidio, un mancato rispetto della donna e della gente, una sottomissione continua a una politica fatta di ricatto e soprusi? Lì, dove le persone continuano a morire, vittime di un sistema offuscato e appannato dal male.
In fondo, parlare poco del confine messicano e di questa situazione va a vantaggio di quello che è diventato il mondo della globalizzazione e dello sfruttamento. Una scelta perfetta per favorire il libero schiavismo, perché se si invade un territorio in via di sviluppo, non necessariamente bisogna anche proteggerlo.
Per saperne di più: Juarez, la città dove le donne sono usa e getta
Anna Lisa Lo Sapio