Il termine fast fashion indica una moda veloce basata sulla capacità delle aziende di produrre grandi quantità di vestiti in poco tempo, portando i consumatori ad acquistare sempre più capi nuovi – a prezzo basso e con materiali di scarsa qualità – buttando via quelli ritenuti vecchi ma che sono ancora perfettamente utilizzabili. Il fenomeno della fast fashion è stato avviato da Zara, considerato uno dei pionieri, da qui hanno seguito H&M, Mango fino ad arrivare al colosso Shein che si è fatto spazio negli ultimi anni sulla scena della fast fashion – recentemente c’è stata anche la prima sfilata del brand. L’Italia non è esonerata da questo fenomeno, infatti ci sono molti marchi di fast fashion come Carpisa, Pinko e Oviesse. Tantissimi capi delle incessanti nuove collezioni dei marchi di fast fashion restano invenduti trasformandosi anche loro in rifiuti. Lo smaltimento è molto difficile e l’enorme quantità di indumenti scartati ha causato nel tempo la creazione di discariche a cielo aperto in luoghi che non sono affatto adibiti a questo compito come il deserto di Atacama in Cile e la spiaggia di Accra in Ghana.
L’Agenzia Europea dell’ambiente ha realizzato un report riguardo le esportazioni di rifiuti tessili dal 2000 al 2019, mostrando come si sia triplicata l’esportazione negli ultimi due decenni verso l’Asia (41%) e l’Africa (46%); parliamo di Paesi dove vengono prodotti la maggior parte delle collezioni di fast fashion perché la mano d’opera è a basso costo, gli operai sono sfruttati in condizioni di lavoro pietose e con inesistenti politiche sul lavoro. Sempre nel periodo dal 2000 al 2015 la produzioni di capi è raddoppiata ma l’utilizzo è diminuito del 36%.
Che fine fanno i nostri vestiti?
I vestiti arrivano dal Paese fabbricante alla nazione venditrice che cerca di venderne il più possibile. I capi invenduti o quelli buttati dai consumatori ritornano nel paese fabbricante sprovvisto di strutture adeguate per lo smaltimento. Generalmente, il Paese fabbricante richiede i vestiti buttati e invenduti sia per poterli riutilizzare o rivenderli ad un altro Paese. Se questi vestiti non soddisfano una serie di parametri per essere riutilizzati, vengono buttati nelle discariche e rimangono lì per anni. A livello mondiale si stima che 87% dei capi vengano buttati nelle discariche. Anche in Italia non è difficile trovare discariche simili: molto spesso durante le opere di bonificazione si trovano vestiti ancora intatti sepolti sotto terra.
L’Unione europea e la fast fashion
Il 14 marzo 2019 è nata l’Alleanza delle Nazioni Unite per la moda sostenibile (UN Alliance for Sustainable Fashion) che comprende una decina di membri tra agenzie e organizzazioni alleate con il compito di contribuire all’obiettivo di sviluppo sostenibile attraverso una serie di azioni coordinate per il settore della moda. L’obiettivo è quello di migliorare le condizioni di lavoro e gli stipendi degli operai, attualmente in condizioni di sfruttamento, e di ridurre l’inquinamento causato dalle industrie, in particolare l’inquinamento dell’acqua e le emissioni di gas serra. Come si legge sul sito ufficiale «Attraverso l’Alleanza, l’ONU si impegna a cambiare il percorso della moda, riducendone gli impatti ambientali e sociali negativi; e trasformare la moda in un motore dell’attuazione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile» . Infatti, il goal 12 dell’agenda 2030 “produzione e consumo responsabile” mira entro il 2030 a «ridurre sostanzialmente la produzione di rifiuti attraverso la prevenzione, la riduzione, il riciclaggio e il riutilizzo. Incoraggiare le aziende, in particolare quelle grandi e transnazionali, ad adottare pratiche sostenibili e a integrare le informazioni sulla sostenibilità nel loro ciclo di rendicontazione. Garantire che le persone in tutto il mondo abbiano informazioni e consapevolezza rilevanti per lo sviluppo sostenibile e stili di vita in armonia con la natura. Sostenere i Paesi in via di sviluppo affinché rafforzino la loro capacità scientifica e tecnologica per procedere verso modelli di consumo e produzione più sostenibili» .
Già nel marzo 2022 la Commissione Europea presentò la strategia dell’UE per i prodotti tessili sostenibili e circolari al fine di proporre azioni per cambiare il modo in cui produciamo e consumiamo i prodotti tessili che punta ad attuare gli impegni del Green Deal passato con 68 voti favorevoli e un’astensione. Con questa strategia l’Unione Europea si impegna a cambiare rotta sulla produzione di tessuti, condizioni dei lavoratori, insomma tutti punti che trovano sintesi nella fast fashion che, con molta, troppa calma, si cerca di abbattere.
Gaia Russo