Quella della legalizzazione della cannabis è una delle questioni per cui l’Italia si dovrebbe mobilitare, ma costituisce un tabù imbarazzante ed è immersa in un sistema criminogeno che viene rinforzato a suon di “tolleranza zero”. Eppure l’Italia è al secondo posto in Europa per numero di consumatori giornalieri di cannabis (500000 – un milione) e al dodicesimo nel mondo.
“Questione cannabis. Le ragioni della legalizzazione” a cura di Leopoldo Grosso con contributi di Giancane, Grosso, Manconi, Soldo, Rossi, Zuffa (Edizioni Gruppo Abele, 2018) ripercorre gli effetti del proibizionismo e di una possibile legalizzazione con l’analisi documentata di dati sociali, sanitari, economici.
La legalizzazione per il bene dei malati…
Sul fronte medico l’Italia ha mosso qualche passo: con il Decreto Turco nel 2007 viene autorizzato l’uso in terapia del THC, tuttavia tra le aziende farmaceutiche regna il silenzio. Solo lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze attualmente produce canapa industriale, ma non copre il fabbisogno nazionale.
La situazione è immobile sugli stessi punti: rigidità amministrativa, assenza di ricerca ufficiale che provoca povertà di dati e cattiva informazione e l’alone di illegalità che avvolge persino una sostanza come la canapa industriale che è consentito produrre. Nonostante si pensi ancora che esistano solo SerD e comunità, ci sono molti progetti (come l’housing) che offrono servizi diversificati in base alla molteplicità di stili e ambienti d’uso della cannabis, ma non bastano. Inoltre si finanzia di più la ricerca biologica e farmacologica rispetto a quella psicosociale, più utile per capire le ragioni del consumo e adottare adeguate politiche.
Una proposta razionale e praticabile, sostiene Giancane, è estendere l’area della prescrizione medica: trasformare l’automedicazione in un percorso di valutazione clinica accurata, basata sull’unicità del paziente al cui termine vi è la vera prescrizione.
Ciò garantisce la qualità del prodotto, e si sottraggono le persone che ne hanno bisogno (dal profilo criminale spesso nullo) alla demonizzazione dei consumatori perseguiti in base alla normativa sugli stupefacenti. Il progetto darebbe ampio respiro anche ad attività di prevenzione e informazione, soprattutto per i giovani. È un’ottima «occasione per una grande operazione a favore della salute pubblica, finanziata dagli stessi pazienti». Degno di nota l’annuncio della ministra della Salute Giulia Grillo riguardo alla cannabis medica: «Farò ogni sforzo affinché in tutte le farmacie torni disponibile […]».
…e dei giovani
Il libro poi prosegue sostenendo che il vero cavallo di battaglia per l’Italia sta nella legalizzazione dell’uso ricreativo della cannabis, così radicato che sarebbe assurdo e controproducente continuare a stigmatizzarlo o, peggio, ignorarlo. Infatti secondo l’EMCDDA (Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze di Lisbona) l’Italia è al secondo posto in Europa per un consumo annuale che schizza al 19% nella fascia di età fra i 15 e i 34 anni e si stima che il consumo di cannabis copra il 27% del totale delle sostanze.
Il clima, soprattutto tra giovani consumatori e istituzioni, non è dei migliori: è assodata ormai l’inimicizia tra le due parti e questo rende difficile sia la cooperazione che un intervento educativo necessario anche a demolire gravi luoghi comuni (ad esempio si pensa che la marijuana sia più pericolosa di alcol e tabacco, quando in realtà quest’ultimo provoca annualmente 80000 vittime!).
Gli autori Manconi e Soldo convengono sul fatto che affrontare la situazione giovanile con operazioni di “caccia” al consumatore non è la soluzione migliore: anche fatti di cronaca recenti dimostrano che la cieca repressione aumenta solo il disagio sociale. Per favorire un clima di legalità è necessaria una rete di servizi sottesi alla legalizzazione come il drug checking, le campagne di informazione ed educazione al consumo sano che ad oggi mancano persino nelle scuole.
Una valutazione economica: meglio tassare che proibire
Marco Rossi, docente all’Università di Roma La Sapienza cura un capitolo sui due strumenti principali per controllare il mercato della cannabis che in Italia è longevo, resistente al contrasto e costa agli italiani quasi 4 miliardi di euro.
Proibizione e tassazione sono entrambi efficaci teoricamente, poiché inducendo un aumento del prezzo riducono la quantità domandata. Ma ci sono differenze sostanziali.
Il proibizionismo ha fallito: pur con l’obiettivo di eliminare il consumo di sostanze illecite e le esternalità (costi del consumo in termini sanitari, economici e sociali), ha prodotto effetti indesiderati. Tra questi ha minato le fondamenta della legalità, soprattutto nei giovani che hanno sviluppato avversione per le istituzioni, ha disperso soldi ed energie nel contrasto alla droga, il cui circuito di scambio non è stato ostacolato significativamente. Non ha stabilito la separazione dei mercati e questo aumenta il rischio del gateway effect, (passaggio ad altre sostanze, magari più pericolose). Il problema economico del proibizionismo, oltre ai costi di applicazione, riguarda la distribuzione del benessere: implica un aumento del prezzo che danneggia i consumatori a vantaggio dei venditori, la tassazione trasforma i profitti degli spacciatori in gettito erariale.
L’autore invece spiega perché conviene la tassazione, che presuppone la legalizzazione: riduzione dei costi del contrasto al contrabbando (attualmente sono 600 milioni annui), aumento della produttività dei consumatori – questo contribuisce al benessere collettivo – poiché si punta sulla depenalizzazione e decriminalizzazione. Dal punto di vista sanitario, eviterebbe l’uso di sostanze adulterate e il gateway effect. Inoltre con l’avvio di una produzione nazionale (si presuppone l’assenza di esportazioni e del cosiddetto turismo dello spinello) finirebbero nelle casse statali 500 milioni di euro annui.
Le molte strade della legalizzazione
Grazia Zuffa nel penultimo capitolo scrive che ci sono, da anni, varie esperienze di legalizzazione in corso nel mondo e questo offre all’Italia un corposo repertorio di sistemi cui attingere.
Grazie alla spinta dei Paesi dell’America Latina si sono aperti nuovi scenari nelle politiche della droga, specie della cannabis. Durante l’assemblea UNGASS 2016 prevalse la proposta di Guatemala, Messico e Colombia di rivedere la normativa internazionale sugli stupefacenti, il che stimolò ancor più il dibattito. In vari Paesi americani ci sono norme per l’approvvigionamento legale di cannabis a scopo ricreativo: Colorado e Washington State (2012), Alaska, Oregon, Washington DC (2014), California, Nevada, Massachusetts, Maine (2016). Inoltre la California è il Paese con la più antica esperienza di distribuzione legale di cannabis medica. Poi c’è il caso dell’Uruguay (2013) che ha legalizzato per primo al mondo la cannabis appoggiandosi a un regime misto di monopolio e di modello commerciale, a cui ha fatto eco il Canada (2018).
Dal Nord Europa si sono diramati modelli di proibizione mitigata (gentle prohibition) che prevedono soprattutto la depenalizzazione del consumo personale. Esemplare è l’esperienza dei cannabis social club nati in Spagna i quali ritagliano nel mercato legale spazi condivisi per consumare e coltivare cannabis rispettando la norma internazionale. I coffee shop olandesi, pur avendo avuto successo all’inizio, mostrano ormai l’incongruenza tra lo statuto legale dei locali e la provenienza illegale dei prodotti. Nonostante ciò, l’Olanda dimostra come sul medio-lungo periodo il consumo si sia stabilizzato, quindi come sia inesatta l’equazione “legalizzazione uguale aumento del consumo”. Un’altra possibilità è quella dell’auto coltivazione, sia a scopo terapeutico che ricreativo.
Si deve puntare molto su una cultura che distingua il consumo dall’abuso e sull’unione di controlli legali e controlli sociali. Una cosa è certa: la legalizzazione costituirebbe una grande prova di civiltà e maturità per l’Italia.
Arianna Saggio