16.6% è la percentuale di salario che differenzia un uomo da una donna. Stesso lavoro, identiche mansioni ma una paga diversa.
16.6% è la percentuale media nell’Unione Europea per quello che viene definito gender pay gap (GPG), cioè la differenza di salario orario dovuta alla disuguaglianza di genere.
Qualche dato sul gender pay gap
Secondo una ricerca del 2014, il gender pay gap in Europa è variabile: la differenza salariale oscilla tra un 5.2% e un 25.3%. I Paesi con il tasso più basso di GPG sono Romania (5.2%), Italia (5.3%) e Lussemburgo (5.5%), mentre dall’altro lato della classifica si trovano Estonia (25.3%), Repubblica Ceca (21.8%), Germania (21.5%), Regno Unito (21%) e Austria (20.1%).
Altri indicatori utili a valutare la situazione dell’occupazione femminile sono il gender employment gap, il gender pay gap ‘orario’ – cioè la differenza tra il numero di ore mensili pagate a un uomo o a una donna, dato influenzato dal tasso maggiore di donne occupate nel part-time – e il gender pay gap relativo alle singole aree economiche.
Quest’ultimo mostra che il GPG maggiore (con l’eccezione della Spagna) si incontra nel campo delle attività finanziarie e assicurative. Per esempio l’Italia, che presenta in generale un GPG che si aggira intorno al 5-6%, arriva a un 18.1% in questo settore.
Secondo l’Eurostat, le principali cause del gender pay gap sono in parte culturali (responsabilità familiari, ruoli di genere e tradizioni, norme sociali che influenzano la scelta educativa e lavorativa delle donne) e in parte socio-economiche (possibilità occupazionali per l’impiego part-time, scarsa presenza femminile a livello dirigenziale).
Il tasso di occupazione femminile
Per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile la situazione è critica, soprattutto nel Sud Italia.
Le statistiche del tasso occupazionale per le persone di età compresa tra 20 e 64 anni nei singoli Paesi europei presentano una variazione tra un 57.8% e un 81.8%, con una media europea del 72.2% al 2017. Grecia, Italia e Romania sono agli ultimi posti con un tasso rispettivamente del 57.8%, 62.3% e 68.8%. All’altro lato della scala troviamo Svezia (81.8%), Germania (79.2%), Estonia (78.7%), Repubblica Ceca (78.5%) e Regno Unito (78.2%).
Il gender employment gap è più alto nei Paesi con il tasso di occupazione più basso: l’Italia è al penultimo posto con un 20.1% di donne in meno nel mercato lavorativo, seguita solo da Malta con un 27.7% e preceduta da Grecia (19%), Romania (17.6%) e Repubblica Ceca (16%). Lituania, Lettonia, Finlandia e Svezia sono tra i paesi con il gender employment gap più basso con rispettivamente 1.9%, 2.9%, 3.3% e 3.8%.
La situazione italiana
I dati citati sono ancora più sconcertanti se, badando alla sola Italia, si guardano le percentuali per regioni. Il tasso di occupazione generale del 2017 (maschile e femminile) si ferma al 40.6% in Sicilia, seguita da Calabria (40.8%) e Campania (42%), rispetto al 62.3% nazionale.
Ciò detto, il tasso di occupazione femminile medio è di 32.3% nelle regioni del Mezzogiorno, con picchi inferiori al 30% in Sicilia (29.2%) e Campania (29.4%), seguite da Calabria (30.2%) e Puglia (32%). Considerato che la media in Europa si aggira intorno al 62.4%, l’Italia raggiunge un tasso medio del 48.9%, confermando i grandi squilibri tra Nord e Sud del paese.
Oltre la discriminazione salariale: la violenza sul lavoro
Secondo un rapporto dell’Osservatorio Europeo sul Lavoro (EurWORK), la violenza sul lavoro – non solo in relazione al genere, ma in generale le discriminazioni e gli attacchi subiti dalle persone nel contesto lavorativo – è affrontata in maniera disuguale dai Paesi europei.
In particolare è interessante notare, sebbene non estensivamente studiato all’interno del rapporto, la relazione tra fattori socioculturali e la reazione ai casi di violenza sul lavoro.
Tolleranza e indifferenza dovute a stereotipi e pregiudizi sono la regola soprattutto al Sud (Grecia, Italia, Malta, Portogallo) e nell’Est Europa (Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Lituania e Slovenia), il cui risultato è una scarsità di sanzioni nei confronti degli autori di violenza, insieme a una re-vittimizzazione dei lavoratori colpiti.
Anche la ‘power distance‘ gioca un ruolo fondamentale, specialmente in ambienti sociali dominati dal patriarcato e dalla predominanza di una cultura ‘individualista-maschile’: mentre nei Paesi del Sud e dell’Est le violenze sul luogo di lavoro sono perpetrate dall’autorità e vengono denunciate raramente, i Paesi del Nord Europa presentano soprattutto casi di prevaricazione orizzontale (cioè tra colleghi) e le vittime sono molto più propense a denunciare.
La storia di Grazia
Recentemente è diventata popolare – grazie alla condivisione che ne ha fatto su Facebook il centro sociale napoletano “Ex Opg occupato Je So’ Pazz” – la storia di Grazia, una lavoratrice dell’associazione “Napoli Sotterranea” che ha deciso di denunciare le molestie sessuali subite da parte del suo datore di lavoro il 30 gennaio 2017.
«Queste non sono le storie dei ‘soli’ ma sono le storie di ognuno di noi. Bisogna dare voce alle storie di tutti perché non è tollerabile che questo avvenga sui luoghi di lavoro.»
Ad oggi il denunciato, che sostiene la propria innocenza, è stato rinviato a giudizio per violenza sessuale: sarà la giustizia a ricostruire i fatti e a decidere da quale parte stia la ragione.
Al di là di tutto, però, una vicenda simile può rappresentare un invito a dire basta a una cultura del lavoro nella quale non solo è accettato lo sfruttamento economico (Grazia da quattro anni lavorava in nero), ma anche lo sfruttamento patriarcale dei corpi delle donne.
https://www.facebook.com/exopgjesopazzo/videos/1475557059217619/
L’importanza delle Istituzioni
Le difficoltà che incontrano le vittime di violenza sul lavoro a uscire dal circolo di omertà che circonda questo tipo di episodi sono purtroppo note, anche ai più alti livelli economici e sociali, come dimostrano le recenti vicende hollywoodiane che hanno sollecitato l’attenzione dei media. Ma è ancor di più difficile denunciare quando la vittima si trova davanti alla possibilità concreta di perdere i proprio posto di lavoro.
Il messaggio è allora chiaro: “basta”. Un “basta” il cui principale destinatario sono le Istituzioni alle quali chiediamo di riconoscere un problema, che è enorme e sistemico e non può essere sottovalutato o banalizzato, che è costituito da fattori socioculturali ma soprattutto da un costante sfruttamento economico, le cui principali vittime sono le lavoratrici donne e ancor di più le lavoratrici del Mezzogiorno.
Claudia Tatangelo