State passeggiando in città, quando d’un tratto un turista vi si avvicina chiedendo indicazioni. Nel bel mezzo della conversazione due uomini, che trasportano una porta, si intromettono passando tra di voi e nascondendovi il vostro interlocutore. Vi accorgereste di uno scambio di persona? Direste di sì, senza dubbio. Ebbene, due psicologi condussero nel ’98 un uguale esperimento ad Harvard e, con somma sorpresa, solo 8 dei 15 partecipanti smascherarono la piccola “truffa”.
In gergo il fenomeno (particolarmente studiato nell’ambito della ricerca sulla percezione visiva) viene definito Change Blindness, in allusione alla difficoltà che si ha nella rivelazione di un cambiamento ai nostri occhi. Insomma, vi è un sostanziale aumento nel grado di cecità al cambiamento quando quest’ultimo avviene nello sfondo, e inaspettatamente. Ancora, nemmeno davanti ad una rapina sullo schermo di una videocamera di sorveglianza presumibilmente riconosceremmo uno scambio di ladro. Un oggetto di valore pescato in una cassaforte o la pistola, un gesto violento, risalterebbero sicuramente di più.
Ed è proprio nella disattenzione ai dettagli che si consuma anche il climate change, un fenomeno che spesso tendiamo a minimizzare, a nascondere dietro il complesso delle nostre vite, di bisogni quotidiani che reputiamo nell’immediato importanti e che, però, non sono da meno rispetto alla portata delle minacce ambientali che incombono sulla nostra civiltà. Ebbene, un modo per provare a cambiare le cose c’è e si nasconde proprio dietro innumerevoli dettagli, abitudini sbagliate o – come nel presente articolo – tecniche di produzione sottovalutate.
Sappiamo che, per quanto repentino su scale temporali geologiche, il problema del riscaldamento globale ha iniziato ad interessare il pianeta Terra già dalla fine della seconda rivoluzione industriale, anche se solo recentemente ne sono venute fuori delle conseguenze oltremodo tangibili.
Non è un dettaglio, quindi, che a Zermatt, in Svizzera, un torrente sia esondato in una giornata caratterizzata dalla totale assenza di pioggia e da temperature estremamente elevate. Non è un dettaglio che in Groenlandia, nel luogo più a nord della Terra, a giugno si siano toccati i 21°C lungo le coste, né tanto meno che in Alaska, a fronte di una temperatura stagionale di 18°C, si registrino picchi anche intorno ai 31°C. Non è un dettaglio che in Gran Bretagna diverse compagnie ferroviarie abbiano dovuto sospendere i servizi a causa del pericolo derivante dal surriscaldamento dei binari e cavi elettrici. O che decine di roghi devastino le foreste intorno al Circolo Polare (ne abbiamo parlato qui); che, in Germania, la centrale nucleare di Grohnde sia stata chiusa decine di giorni fa perché la temperatura dell’acqua del fiume Weser, normalmente utilizzata per raffreddare il reattore, aveva raggiunto la soglia critica dei 26 Celsius.
Il futuro in una serra: le colture fuori suolo
Nella lista dei contribuenti agli alti livelli di emissioni (specialmente di CO2) compare soprattutto l’agricoltura (circa il 24%), a causa delle pratiche odierne che spesso prevedono l’uso di pesticidi e concimi chimici nel tentativo di accelerare la produzione.
In futuro, tuttavia, il comparto agricolo dovrà fronteggiare un ulteriore e netto aumento della popolazione mondiale (10 miliardi nelle previsioni più a lungo termine), che, insieme all’incremento dei rifiuti (copiosi e difficili da smaltire) e all’uso abbastanza scriteriato delle risorse da parte dell’uomo, richiederà almeno il doppio dell’acqua e del terreno di cui disponiamo attualmente. Nelle colture risiede peraltro anche la base e il sostentamento di migliaia di allevamenti, e si fa presto a comprendere il ruolo che queste hanno nella vita di tutti. Dalle stime odierne, però, le risorse sono in netta diminuzione. Tanto per fare un esempio, quest’anno l’Earth Overshoot Day, che indica a livello illustrativo il giorno nel quale l’umanità consuma interamente le risorse prodotte dal pianeta nell’intero anno, è caduto il 29 luglio (mai così presto da quando si è iniziato a calcolarlo).
Nell’ultimo decennio, comunque, si sono fatte strada numerose soluzioni a basso impatto ambientale che possano sostituire le odierne produzioni agricole con tecniche semplici e che allo stesso tempo riducano gli sprechi. Questo tipo di coltivazioni – dette fuori suolo – comprendono una vasta gamma di sistemi, accomunati in gran parte dalle stesse modalità.
Gli esempi più importanti provengono dall’Olanda, che malgrado un’estensione minima rispetto ai competitors (tipo USA) negli ultimi anni ha giganteggiato nell’esportazione mondiale di cibi. Asso nella manica della terra dei mulini a vento sono le serre – quasi tutte in alluminio e vetro – che sono progettate in modo da catturare e trattenere la maggior parte del calore irradiato dal sole. Al loro interno viene praticata la cosiddetta agricoltura idroponica, tramite la quale si riescono a riprodurre le condizioni ambientali di determinate nicchie ecologiche utilizzando semplicemente un substrato inerte e soluzioni nutritive a base d’acqua.
Idroponica, un’agricoltura di precisione dove e come vogliamo
In mancanza di suolo effettivo, infatti, le piante sono adibite in appositi supporti galleggianti contenenti il substrato, con le radici che affondano direttamente nella soluzione nutritiva. Quest’ultima viene solitamente allestita con acqua e composti prevalentemente inorganici che favoriscano l’assorbimento radicale. In via secondaria, il processo di nutrizione minerale della pianta passa anche dagli stomi delle foglie; in questo caso la soluzione nutritiva viene somministrata alla pianta tramite sistemi di nebulizzazione (si parla di aeroponica). L’acqua di irrigazione viene quindi riutilizzata a circuito chiuso, per minimizzare gli sprechi.
Il substrato, invece, contiene per lo più silicati (come argilla, lana di roccia, perlite e zeolite) e richiede un sufficiente grado di porosità perché vi circolino i nutrienti; essendo completamente inerte, in più, fa in modo che venga rimosso qualsiasi tipo di contatto con gli agenti patogeni del terreno, migliorando la salute della pianta. Nelle serre si prevedono anche immissioni forzate di anidride carbonica (anche oltre 300-400 parti per milione), dato che questa è responsabile (insieme all’ossigeno) di buona parte della nutrizione della pianta. Nel complesso la produzione va avanti per 10 mesi su 12, riservando i mesi più freddi al riscaldamento dell’impianto. Nella serra idroponica di Gavorrano, in provincia di Grosseto e appartenente a Sfera Agricola, tra le tante cose, per scaldare l’acqua si usa una caldaia che ha come combustibile il truciolato, cioè i residui delle lavorazioni boschive della zona.
I vantaggi che portano le coltivazioni in serra, e in particolare quelle idroponiche, sono molteplici. Con la coltivazione fuori suolo, infatti, si può coltivare in qualsiasi luogo e condizione, all’aperto o al chiuso, in orizzontale o in verticale – come per esempio Sky Greens a Singapore – sui tetti o nelle cantine, in spazi grandi o molto piccoli, e quindi anche nelle grandi metropoli dove è forte il rischio di sovrappopolazione. In questo modo si ridurrebbero i costi economici e ambientali dovuti al trasporto, in barba agli accordi che, nonostante l’emergenza climatica, sembra spingano in tutt’altra direzione (si veda il recente JEFTA, che liberalizza il mercato agroalimentare dai paesi europei verso il Giappone).
Un altro vantaggio dell’agricoltura idroponica è da ricercarsi nel minor uso di acqua, che si conta possa essere fino a dieci volte inferiore rispetto al necessario per una coltura tradizionale. O anche nell’uso ridotto o quasi nullo di antiparassitari e diserbanti (i parassiti infatti vengono combattuti con degli insetti che se ne nutrono), o per concludere nel recupero delle acque piovane e in un consumo energetico che si riduce fino al 75%. Non è da sottovalutare inoltre che lo sviluppo di un’agricoltura verticale, o comunque lontana dai luoghi dove normalmente viene praticata, ridurrebbe il pericolo delle deforestazioni e dell’erosione del suolo, lasciando spazio ai principali smaltitori di CO2: gli alberi. I controlli strettissimi sulle sostanze di cui si nutre la pianta permettono infine di eliminare contaminazioni, ad esempio da metalli pesanti o pesticidi (cosa che non è possibile invece con le coltivazioni in campo aperto).
Infine, anche il gusto caratteristico di alcuni prodotti tipici ha la possibilità di essere controllato, talvolta alterando i gradi di concentrazione di sostanze fenoliche e/o acidi organici. Un esempio è il pomodoro Pachino, tipico della Sicilia, che cresce sotto stress luminosi molto forti e in un terreno prevalentemente salino.
In Olanda il filone della coltura idroponica mantiene ancora alti standard, grazie alle numerose cooperative di agricoltori che fronteggiano la grande distribuzione; in Italia, invece, sono ancora poche le realtà in gioco, probabilmente fermate dall’ombra di costi di produzione decisamente maggiori rispetto a una normale serra, a cui bisogna aggiungere anche competenza dell’agricoltore. Tra gli esempi migliori nel campo dell’agritech italiano compare la startup toscana Sfera Agricola, che ha contribuito allo sviluppo economico della Maremma (fatturando 13 milioni solo al primo anno di attività) e dimostrato come un’attività che incentivi alla salvaguardia dell’ambiente possa diventare anche un grande business. Lo stesso vale anche per Phytoponics, o anche Robonica, Jellyfish Barge (serra idroponica modulare e galleggiante) o Greendea, che sono specializzate nella coltivazione idroponica domestica.
Insomma, la tecnica offre molti modi per calmierare l’impatto dell’attività dell’uomo sul pianeta, tra cui la realtà dell’agricoltura idroponica. Sta comunque a noi ricordarci di pensare che, nonostante ciò, la vera innovazione è quella che dovrà attecchire nelle nostre coscienze. E renderci consapevoli e meno ciechi davanti ai dettagli, che gridano sullo sfondo delle nostre giornate piene di impegni che il mondo prima o poi si consuma.
Nicola Puca
Fonte immagine in evidenza: makesud